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Adriana D’Oltrevita resta di qua dall’opera

di Donato De Carlo
  Adriana Lecouvreur
Data di pubblicazione su web 25/02/2010  

L’idea dichiarata dell’Adriana Lecouvreur in scena a Firenze è riambientarne il soggetto storico settecentesco nell’epoca in cui l’opera di Cilea è stata scritta, i primi anni del Novecento. La vita d’attrice, che ne è il tema, diventa così la vita di una diva del cinema coevo. E il bianco e il nero sono effettivamente i quasi unici colori delle affascinanti scene e dei costumi di Ivan Stefanutti, ch’è anche il regista. Persino il sipario ornato, e il mazzo di fiori - segno scenico centrale dell’opera - che dovrebbero essere viole, si adeguano a questa bicromia che vorrebbe suggerire il netto contrasto delle passioni, ma nel deciso predominio del nero marmoreo degli ambienti unisce piuttosto l’eleganza severa al presagio funesto. Risalta in questo contesto l’ampia chioma bionda della protagonista.


 



 

La scena delinea l’atmosfera d’epoca senza sovraccaricarsi di riferimenti al cinema e rimanendo sempre sobria, realistica ma senza pedanteria; riesce anzi talvolta ad essere eloquente, come nel finale in penombra del secondo atto, quando all’apertura dell’uscio segreto un fascio di luce improvvisa affila la tensione fra Adriana e la Principessa di Bouillon, le quali ancora non sanno di essere rivali in amore. Stefanutti propone inoltre, per la protagonista, non un generico profilo da diva dello schermo, ma precisamente l’identificazione con Lyda Borelli, attrice tramite cui il nascente cinema gettò da parte sua un ponte verso lo spirito della musica: s’intende il film (o meglio “poema cinema-musicale”) di Nino Oxilia Rapsodia satanica, con le musiche di Mascagni, in cui la Borelli interpreta il personaggio principale, Alba d’Oltrevita, estenuata abitante di un mondo erotico-simbolico. Nell’ultimo atto dell’opera, che si svolge in casa di Adriana Lecouvreur, campeggia infatti un grande ritratto della Borelli che diventa colorato, significativa eccezione, nel momento in cui la protagonista spira. Ma l’accostamento non va spinto oltre; del corpo mobilissimo della Borelli testimoniato dal film non pare esservi traccia nella recitazione, che ripropone le consuetudini operistiche (la frequenza con cui le bocche degli amanti si baciano induce anzi qualche nostalgia del codice Hays). La scena del primo atto in cui si deve immaginare dietro le quinte, dalle parole del direttore di scena Michonnet, il monologo del Bajazet interpretato dalla Lecouvreur, fa trasparire questa mentre si esibisce con movimenti rallentati molto suggestivi, ma del cinema muto ciò può essere tutt’al più una stilizzazione.


 



 

L’idea di base dell’allestimento, indubbiamente molto interessante, rimane dunque piuttosto in superficie. La compagnia di canto non è d’altra parte riuscita a dar rilievo all’opera. Il Principe di Francesco Palmieri e l’abate di Mario Bolognesi, pur in sostanza corretti, non sono usciti dall’ombra, e il secondo ha lasciato del tutto il lato caricaturale del personaggio al linguaggio affettato che il libretto gli assegna. Stefano Antonucci, molto buono sul piano vocale, ha disegnato un Michonnet misurato e ragionatore che non convince più nei momenti quasi da Figaro che gli toccano; Fabio Sartori, Maurizio, ha fatto valere una voce rotonda, equilibrata ed energica ma senza un grande impatto espressivo, e la gestualità non lo ha aiutato. Marianne Cornetti, la Principessa di Bouillon, ha avuto dalla sua la forza, ma non la flessibilità né la saldezza. Non soddisfacente anche la prova della protagonista, Adina Nitescu, la cui voce si è mostrata spesso disomogenea e malferma, certo penetrante ma a volte sforzata, anche se sono riuscite suggestive alcune inflessioni liriche; le problematiche sezioni declamate sono state risolte con enfasi convenzionale. Disuguale anche la prova dei ruoli secondari. Patrick Fournillier ha diretto con buon impulso e chiarezza di tessuto. Il balletto del terzo atto che ha per soggetto il giudizio di Paride, assegnato a due danzatrici oltre il protagonista, è risultato piuttosto astratto, e astratto anche dalla situazione che lo contorna, della quale dovrebbe invece fungere da simbolo ammonitorio.

 

Adriana Lecouvreur



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