Splendidamente fotografato, il film del giovane regista russo Alexei Popogrebsky è certamente unopera di stile che si distingue nettamente da tutte le altre presenti alla mostra per lassoluta assenza di intenzionalità politiche dirette, tutta volta allesaltazione dellimmagine che diventa significato e ci riporta allessenza stessa del cinema darte. Senza nessun compiacimento estetizzante o, peggio, virtuosismi tecnicistici. È un film che nasce da unidea forse un po troppo astratta – «la storia di due scale personali (e incompatibili) del tempo e dello spazio» secondo le indicazioni un po esoteriche del regista psicologo – che trova però una suggestiva evidenza nelle immagini, nel loro ritmo, nellimmediata forza espressiva. È in qualche misura anche un film sulla memoria scritta che si fa, a sua volta, immagine e visione. Infatti il tema è stato suggerito al regista dal ricordo delle letture giovanili del diario di N.V. Pinegin che nel 1912 aveva accompagnato lesploratore russo Georgi Sedov nellinfelice e tragico tentativo di raggiungere il Polo Nord.
Una scena del film
Nelle estreme propaggini di quelle terre si svolge il thriller psicologico che vede il confronto tra i due atteggiamenti incompatibili di Sergei, scienziato che ha sacrificato una vita normale alla scienza e che cura con inflessibile senso del dovere il suo compito di controllo degli strumenti sperimentali posti in questa terra di nessuno, e il giovane e spensierato Pavel, giunto alla base per una sola estate, quasi in viaggio premio dopo la conclusione degli studi. Esperienze e caratteri sono inconciliabili e la comunicazione verbale ridotta allessenziale. Il giovane si isola nel suo MP3 e nei videogames per evitare la brusca didattica dellesperto e ruvido compagno. Le parole filtrano col contagocce, più espliciti i rimproveri. E tutto procede con i ritmi dettati dalle incombenze scientifiche, con lunico contatto diurno via radio con una base remota, con qualche rara distrazione dellanziano che va a pescare in laguna il pesce che farà poi essiccare per portarlo alla moglie e al figlio. Proprio in una di queste rare assenze viene comunicata la tragica notizia di un incidente di cui sono rimasti vittime i familiari di Sergei; una nave che staziona non lontana arriverà in cinque giorni a prelevarlo. Pavel si assume la tremenda responsabilità di non comunicare nulla al compagno fino allarrivo della nave. La solitudine si fa così ancora più estrema, i rari momenti di incontro sono gravati dal terribile segreto. Fino al momento dello svelamento e alla rabbia incontenibile delluomo che si scaglia contro il ragazzo. A questo punto il film prende decisamente la strada del thriller e la paura del ragazzo si trasforma in una sorta di follia autodifensiva che lo spinge a fuggire, a nascondersi alluomo, a entrare nottetempo nella baracca per rifocillarsi. E la parte di maggior ritmo (ma anche la meno convincente) fatta di suspense un po fine a se stessa.
Sergei Puskepalis
Quando, dopo vari annunciati contrattempi, la nave arriva, il destino dei due si scinde definitivamente e, mentre il giovane termina la sua missione, in un abbraccio finalmente carico di comprensione, lo scienziato gli comunica la decisione di restare. Sappiamo che sarà per sempre. Oltre alla inevitabile poesia dei grandi spazi estremi, parte della forza del film (che non sfugge in alcuni momenti ad una nobile noia) è certamente nella differente ma non difforme caratura degli interpreti: Sergei Puskepalis, taciturno e roccioso, e Grigory Dobrygin, nevrotico e inerme. Ma il vero protagonista è Pavel Kostomarov che fa della fotografia lo strumento principale della riuscita.
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