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Anche i Rodrighi piangono

di Roberto Fedi
  Stefano Scandaletti e Michela Macalli
Data di pubblicazione su web 22/01/2004  
Lucia ha quasi diciassette anni, ed è dotata di molto di più della "modesta bellezza" di cui la gratifica Manzoni: fiera, decisa, fisico da miss Lombardia, si vede che è una filatrice del Seicento solo perché quando incontra i potenti tiene, ma neanche tanto, gli occhi bassi. Renzo sembra Maldini, il difensore del Milan vogliamo dire, dopo una partita senza esclusione di colpi e prima di fare la doccia. Agnese, che qui è Stefania Sandrelli, sembra invece la moglie del maresciallo Rocca: dove si vede che certi ruoli, ahimè, sarebbe meglio non interpretarli.

E qui il maresciallo ci vorrebbe sul serio. Perché i 'Signori', insomma i cattivi, imperversano, nel territorio di Lecco intorno al 1630. Se la carestia incombe se la prendono con i contadini, e ne impiccano a dozzine agli alberi della campagna; se vedono una bella ragazzina, sono combattuti fra la passionaccia e l'amore e alla fine però, sbrigativamente, decidono di rapirla per papparsela in un sol boccone. Don Rodrigo, il cattivo locale, è però un cattivo un po' sui generis: per esempio è tormentato (insomma, è un po' Rodrigo e un po' Innominato), e appena vede Lucia in una festicciola al paese se ne innamora. E ci fa anche un piantino, perché vorrebbe essere amato. E anche Lucia resta stecchita: perché quel nero cavaliere è Stefano Dionisi, bello e tenebroso, sempre a cavallo come un nero pistolero western e dotato - i nobili, si sa… - di un sarto meglio di Armani, che lo serve come di più non si potrebbe neanche nei ritratti dei nobili del tenebroso Seicento. Don Abbondio invece sembra Fracchia: anzi, per essere più precisi, sembra anzi è Paolo Villaggio che interpreta Fracchia che interpreta don Abbondio: ed è detto tutto. Toni Bertorelli, ovvero fra Cristoforo, è l'unico bravo, l'unico che riesce a recitare con lo sguardo, e forse proprio per questo e per non far sfigurare gli altri non si vede quasi mai: e, quando finalmente appare, la sceneggiatura, che sembra rivista da Paolo Crepet, gli fa dire cose come "sai - rivolto a Lucia - don Rodrigo è orfano di madre… il padre non lo ha mai amato, e per questo è così…". Roba da morir dal ridere (per gli spettatori), e per il Bertorelli da ricorso con richiesta di danni al tribunale degli attori bravi, se ci fosse. Laura Morante fa la Monaca di Monza, e sembra la moglie di Nanni Moretti della Stanza del figlio, o quella di Fabrizio Bentivoglio nel film di Muccino: insomma la nevrotica standard, cioè il personaggio che ormai ritiene giusto rifilarci ogni volta che appare in scena. 

Inutile precisare che stiamo parlando dei Promessi sposi di Francesca Archibugi: anzi, pardon, di Renzo e Lucia come, scimmiottando il primitivo titolo (presunto) manzoniano di Fermo e Lucia, si intitola questo nuovo sceneggiato in due puntate (Canale 5, 13 e 14 gennaio). Che naturalmente non è il primo: anzi è presumibilmente, si spera, l'ultimo della serie. Lasciamo perdere la versione cinematografica di Mario Camerini del 1941, con Gino Cervi nelle vesti di Renzo. In televisione cominciò Sandro Bolchi nel gennaio 1967 (otto puntate la domenica sull'allora unico programma Rai): una versione in bianco e nero ancora insuperata, con attori eccellenti (don Abbondio era Tino Carraro, Massimo Girotti fra Cristoforo, Lea Massari una eccezionale Monaca di Monza); e Nino Castelnuovo e Paola Pitagora a fare Renzo e Lucia: bravi e giovani, rimasero legati a quel ruolo per tutto il resto della loro carriera. Erano tempi in cui la 'resa' televisiva di un romanzo - se ne facevano parecchi, in Tv - si misurava con la fedeltà al testo scritto: e questo era fedelissimo, e rispettoso. Nel 1989 Salvatore Nocita ci riprovò, questa volta a colori. Cast internazionale, con Burt Lancaster che interpretava il cardinale Borromeo e Murray Abraham l'Innominato; e Alberto Sordi che riduceva a macchietta romaneggiante il povero don Abbondio. Fu una versione fra western e kitsch, con una Lucia che sembrava (ed era, in realtà: Delphine Forest) una modella e Renzo un belloccio di provincia (era il figlio di Anthony Quinn) senza arte né parte. Tinte forti, scene da pittura seicentesca, e qua e là qualche ricordo del Fermo e Lucia, la prima stesura del romanzo più fortemente caratterizzata in senso drammatico. Da dimenticare: se non fosse per alcune scene divertenti proprio per il kitsch. Su tutte, quella dell'incontro di Rodrigo e Lucia nella filanda, con la fanciulla eroticamente sudata (sui monti di Lecco in novembre!) che sembrava fosse lì per posare per un calendario.

Personalmente, se il critico può esporre la sua paradossale predilezione, la versione più intelligente ci pare tuttora quella del trio Solenghi-Lopez-Marchesini, naturalmente parodica (ma già il Quartetto Cetra ai suoi tempi ci si era cimentato mica male). Andò in onda nel gennaio 1990, e i tre si trasformarono in ben 53 personaggi. Memorabili le scene della presentazione di Lucia, della Monaca di Monza, e in genere tutte quelle del personaggio 'in scena' del Manzoni: che era, anche, una soluzione strutturalmente e criticamente tutt'altro che banale. Questo per dire che l'Archibugi non deve aver avuto vita facile. Ha scelto una via un po' diversa, e probabilmente l'unica se proprio questo sceneggiato s'aveva da fare. Ha optato per ciò che un critico chiamerebbe la fabula, cioè la successione degli eventi, lasciando da parte l'intreccio, cioè il montaggio delle scene del romanzo. E, già che c'era, è partita da un ipotetico 'passato' rispetto al testo di Manzoni: Lucia incontra Rodrigo, con gli esiti che abbiamo detto; poi incontra Renzo e i due si piacciono; poi Rodrigo decide di rapirla; poi i due cercano di sposarsi all'improvviso visto che Abbondio è stato spaventato dai bravi; poi fuggono; eccetera. La prima parte del film è così completamente pre-manzoniana, ed è forse (inverosimiglianze a parte: il nobile prepotente che si innamora della campagnola, che è tormentato, che piange…) la migliore: bello, per esempio, l'aver ambientato tutto sulle rive del lago, che così diviene il contraltare anche simbolico della città sconvolta che seguirà, la Milano della peste e della violenza della Storia. Belle le scene, fra pianure attraversate dai cavalli e barche a riva. Il problema è però come far incastrare questo lungo preambolo in quella che poi comunque deve essere la trama manzoniana.

È lì infatti che la crepa diviene visibile fino a diventare una voragine. L'Archibugi, per esempio, se è brava nelle scene intimistiche e 'ferme', è del tutto inabile in quelle di movimento: la celebre 'notte degli imbrogli', che in Manzoni è un capitolo eccezionale per movimento, ironia, concitazione, vera 'opera buffa' in cui si svolgono contemporaneamente tre o quattro azioni notturne (se ne ricorderà il Verga di Mastro-don Gesualdo: se ne rilegga l'inizio), qui è sbrigativamente risolta in una specie di recita di filodrammatica con sfondi di carta, senza tensione né azione - anche per colpa degli attori: Villaggio-Fracchia-Abbondio, che nella scena dovrebbe avere un ruolo dinamico centralissimo, è più statico di un cassone del Seicento, e senz'altro meno bello.


Il resto, esaurita la premessa pre-manzoniana, è allora una semplificazione drastica del romanzo: nel quale in apparenza succede poco, ma che è difficilissimo da riassumere nei suoi risvolti. La guerra, per esempio, sparisce. Tutto fila di corsa verso la soluzione. Divengono centrali la carestia e la peste, piatto forte della seconda parte: ma un piatto facile, sia pure figurativamente efficace. E quindi giù appestati, monatti, carretti ricolmi di cadaveri, fumo, disperazione. Appare in scena Gertrude, qui chiamata con eccessiva fedeltà alla storia Virginia: e per capire qualcosa del suo tormentato passato bisogna (con il massimo dell'inverosimiglianza, come in un qualsiasi film-tv in costume) che Virginia addirittura si confessi con la povera Lucia e le parli di Egidio e della famosa scena dalla finestra. E tanti saluti alla celebre reticentia manzoniana. Per non parlare di Rodrigo e Renzo che si incontrano a Milano, con Rodrigo geloso e solo appagato nel vedere che il rivale ha la peste: come il cattivo di un serial qualsiasi. Insomma, l'opera della Archibugi è il risultato della difficile convivenza di un po' di capacità registiche, un po' di fantasia, un po' di imperfezioni, un po' di psicanalisi da rotocalco (le scene di Rodrigo che si immerge nel lago sono così casuali da sembrare tratte da un altro film), un po' di sociologia, un po' di femminismo, un po' di ricerche iconografiche (le cose migliori), un po' di sesso soft (finalmente Lucia nuda! esclamerebbe uno studente fuori corso), e qualche momento non disprezzabile. Di tutto e di più, direbbero alla Rai. Cosa che quasi mai produce alla fine un buon risultato, ma solo un po' di generica soddisfazione.

Per concludere, un problema di lingua. I bravi dicono "questo matrimonio non si deve fare!" invece di "non s'ha da fare!", e passi (anche se le due frasi non sono uguali, e la prima non è esattamente la traduzione della seconda, bensì solo la banalizzazione). Il romanzo storico, quello manzoniano insomma, è il risultato di una giustapposizione. Lo sfondo è ricostruito sui documenti, e così alcuni personaggi; ma in primo piano agiscono personae di fantasia: come Renzo e Lucia. Si direbbe che l'Archibugi (ma è l'ipotesi a lei più favorevole) abbia allo stesso scopo utilizzato i dialetti e la lingua. Gli interpreti principali parlano un italiano standard, medio-televisivo, degno di un reality show; il contorno popolare (i barcaioli, i soldati, i paesani…) si esprime al contrario in un semi-dialetto lombardo, quasi per dare il senso del 'colore' locale. Di per sé la cosa è risibile (il dialetto come sotto-lingua), e si può giustificare appunto solo con la benevola spiegazione che la regista e gli sceneggiatori abbiano voluto, manzonianamente, mettere insieme una specie di 'tele-romanzo storico'. Che si spera, come dicevamo all'inizio, che sia l'ultimo a esser tratto, liberamente o no, dai Promessi sposi. In modo che, ora che non si studia più a scuola, qualcuno si decida fra un po' a leggerselo per il piacere di farlo. Scoprendo allora, magari, che è un bel romanzo: anche se don Rodrigo a tutto pensa fuorché a piangere, e Lucia nuda non la vede neanche Renzo - e, comunque, non doveva essere poi un grande spettacolo.



Renzo e Lucia

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La locandina del film
 
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