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Non c’è pace tra gli Atridi

di Vincenzo Borghetti
  Elektra
Data di pubblicazione su web 08/02/2010  

L’archeologia, per parafrasare Freud, è una forma di psicanalisi. In altre parole, arriva un punto in cui è necessario fare i conti col passato, ed è vero per gli individui, come lo è per le civiltà. Scavare le tombe di antenati per cercare le tracce dei miti originari significa cercare di capirsi, così come indagare gli strati remoti della psiche. Schliemann inseguiva i resti degli eroi omerici e restituì così il “vero” volto ad Agamennone. Uno dei padri archetipici che l’Occidente aveva nascosto per millenni nel grembo di Micene poteva essere finalmente guardato negli occhi. Dopo Schliemann molti sarebbero stati i Padri e le Madri inquietanti con cui (o forse, meglio, contro cui) donne e uomini avrebbero iniziato un percorso adulto di confronto e di comprensione.

 

Che l’archeologia del mito fosse uno dei mezzi più adatti a scandagliare le nevrosi dell’umanità moderna lo aveva capito benissimo Hugo von Hofmannsthal, che tra fine Ottocento e primo Novecento tornò più volte coi suoi testi teatrali alla tragedia greca e ai suoi personaggi: Alkestis (1894), Elektra (1903), Ödipus und die Sphinx (1903), König Ödipus (1905) sono a titolo diverso saggi analitici di psicopatologia contemporanea. In questo non era solo: il comportamento eccessivo e deviante degli eroi mitici in quel primo Novecento austrotedesco godeva di enorme appeal musicale. Nel 1903 Richard Strauss, mentre già lavorava alla Salome, vide a Berlino la prima rappresentazione di Elektra (la regia era di Max Reinhardt) e non si lasciò sfuggire la possibilità di portare sulle scene operistiche un altro caso di nevrosi femminile. La successione degli eventi dice molto sull’interesse che il compositore mostrò nell’impresa: dopo la prima della tragedia, Strauss si affrettò a richiedere la collaborazione di Hofmannsthal. Nel 1906 (a pochi mesi dalla prima di Salome) la partitura era iniziata. Completata nel 1908, l’opera, anzi, la «tragedia in un atto» debuttava il 25 gennaio 1909 al Teatro di Corte di Dresda.

 

In Italia Elektra giunse prestissimo, alla Scala già nell’aprile del 1909. Tuttavia, se molti teatri della penisola si erano da subito interessati a Salome (proprio il Municipale di Piacenza fu uno dei primi in Europa a rappresentarla), Elektra è stato da noi un titolo presente soprattutto nelle stagioni dei grandi teatri e, in seguito, dei grandi festival. Quindi particolarmente coraggiosa e meritoria è la decisione dei teatri di Bolzano, Modena, Piacenza e Ferrara di proporre quest’opera (in lingua originale e sopratitoli) in un circuito in cui normalmente non è stata e non è presente.

 

 

Una decisione del genere presentava subito delle difficoltà: le buche dei teatri di provincia sono piccole, mentre l’organico orchestrale di Elektra è uno dei più grandi dell’intero repertorio operistico (la partitura prevede oltre 100 strumentisti; per l’occasione si sono fuse l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento e l’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna). Spesso però le difficoltà aguzzano l’ingegno, e la soluzione trovata per questa coproduzione si è rivelata di grande efficacia, costituendo uno dei punti di forza dello spettacolo. Il regista Manfred Schweigkofler (che viene dal teatro sperimentale e si confrontava per la prima volta con un’opera di repertorio) ha spostato l’orchestra sul fondo del palcoscenico dietro un velo nero, facendone una sorta di enorme e onnipresente coro tragico. In questo modo ha recuperato all’azione sia la buca sia il boccascena (incorniciato dai praticabili metallici ideati da Hans Martin Scholder e realizzati da Michele Olcese); sul palco una poltrona vuota come unico arredo. La posizione dell’orchestra ha inoltre permesso a Schweigkofler di organizzare lo spazio scenico in verticale, e di sfruttarne le possibilità simboliche e narrative: il proscenio e la buca sono i luoghi di Elettra e poi di Oreste, fisicamente e patologicamente legati alla figura paterna sempre incombente (la poltrona vuota intorno a cui si svolgono i loro movimenti); i praticabili sono invece i luoghi di Clitennestra, Egisto e Crisotemide. I costumi di Violeta Nevenova, senza un’univoca connotazione temporale, sottolineano le dinamiche affettive dei personaggi: essenziali per Elettra e Oreste, più elaborati per gli altri (fino alla caricatura per Clitennestra, che diventa la Crudelia Demon disneyana, somiglianza accentuata anche dalla Personenregie di Schweigkofler). In questo impianto visivo statico e preordinato i movimenti pensati dal regista acquistano un forte valore simbolico: solo Clitennestra, Elettra ed Oreste hanno animo sufficiente per invadere il campo dell'“altro”, e spostarsi così tra i diversi piani della scena. Al contrario sia Egisto, sia, soprattutto, Crisotemide restano prigionieri imbelli delle loro paure e quindi dei loro spazi.

 

La prima recita di Elektra a Piacenza ha riscosso un grande successo. Dopo l’ultimo accordo (finalmente una sosta su una triade maggiore dopo quasi due ore di musica densissima) è scattata un’autentica ovazione. L’esecuzione è stata eccellente sotto tutti i punti di vista, tuttavia credo che gli spazi relativamente raccolti del teatro abbiano giocato un ruolo fondamentale a favore dell’effetto dell’opera sul pubblico. Questa almeno è stata la mia esperienza: nella platea del Municipale (ma penso che a Bolzano, Modena o Ferrara non sarebbe stato diverso) mi sono sentito a tal punto investito dall’onda sonora proveniente dalla scena che il mio coinvolgimento emotivo con l’azione è stato molto più intenso di quello provato nelle sale dei grandi teatri dove mi è capitato di assistere a produzioni di Elektra. A giudicare dall’entusiasmo degli applausi finali, ho motivo di ritenere che questa esperienza sia stata condivisa anche dagli altri spettatori.

 

Ottima la prova del direttore Gustav Kuhn, straussiano di lungo corso (debuttò a Vienna nel 1977 proprio con Elektra), che ha saputo impegnare la compagine orchestrale e vocale in una lettura tesa e ricca di sottigliezze, ottenendo, nonostante la posizione di spalle, una sincronia tale tra attori e orchestra da far dimenticare la presenza di orchestra e direttore. Di grande livello la prestazione dei cantanti principali: Elena Popovskaya (Elektra), Anna Maria Chiuri (Klytemnästra); Maida Hundeling (Chrysothemis), Wieland Satter (Orest), Richard Decker (Aegisth). Di tutto il cast il maggior plauso del pubblico è stato tributato alla coppia madre-figlia, e anche a mio parere le interpreti di Elektra e Klytämnestra meritano una menzione speciale. Elena Popovskaya, dotata di una tecnica solida e di un timbro luminoso, ha affrontato in modo impeccabile un ruolo di grande impegno scenico e vocale, e ha tratteggiato una Elettra spietata e lunare. All’opposto si colloca la Clitennestra nevrotica di Anna Maria Chiuri, un mezzosoprano di grandi risorse espressive e di estrema disinvoltura nella recitazione (esemplare la sua dizione tedesca). La scena tra le due donne, conclusa dalle tetre risate della Chiuri alla notizia (falsa) della morte di Oreste, è stata uno dei momenti più emozionanti della serata. Sarebbe bello se quest’Elektra non rimanesse un esperimento isolato. Possiamo sperare in nuove coproduzioni che portino altri titoli straussiani e magari anche wagneriani nei teatri di provincia?



Elektra



cast cast & credits

Manfred Schweigkofler

 

 


Gustav Kuhn


 

 
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