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Un Rossini né folle né del tutto organizzato

di Donato de Carlo
  Daniela Barcellona in una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 01/02/2010  

L’edizione dell’Italiana in Algeri di Rossini presentata al Teatro Comunale di Firenze (coprodotta con Madrid, Bordeaux e Houston) è stata piacevole ma disuguale, e la musica vi è stata meglio servita della scena, non per responsabilità dei cantanti. Enrique Mazzola ha diretto con attenzione alle loro esigenze anche a costo di stemperare il brio di qualche cadenza, ma è risultato efficace, e benché cauteloso nei finali – soprattutto il primo – ha trovato altrove buoni momenti. Buona anche la prova del coro, fra le parti secondarie si è distinta la voce di Patrizia Cigna (Elvira). Simone Alaimo ha impersonato un Mustafà non tonitruante né smargiasso ma divertente e riuscito, soprattutto sul piano scenico e dal finale primo in poi, mentre non si è mostrato agile nelle colorature, benché le abbia sempre risolte. Problema simile ha avuto John Osborn, Lindoro, lui però sensibilmente in difficoltà a ricamarle nel registro centrale nelle sue due cavatine e di timbro non affascinante nelle zone più acute; gli si sono invece bene addetti i toni eroici, e se si esclude il duetto con Mustafà si è sempre posto nei brani d’insieme all’altezza degli altri protagonisti. Fra i quali hanno spiccato senz’altro Bruno de Simone, spassoso e sempre centrale Taddeo, e Daniela Barcellona, disinvolta e morbida Isabella, ottimi dal punto di vista della recitazione non meno che da quello vocale, con una vetta nel loro duetto. Della impeccabile protagonista si può solo rimarcare la lievità con cui ha porto i toni seri dell’opera, nell’esordio patetico dell’aria d’entrata come nella patriottica scena e rondò che precede il finale secondo; ma si tratta probabilmente d’una scelta, in linea con la regia di Joan Font (dei Comediants).


Bruno de Simone in una scena dello spettacolo

Questa ha infatti puntato tutto sul fiabesco e la caricatura, mostrando però una tendenza al calligrafismo (portici che diventano chiosco, navi assemblate con valigie) e a condensare alcune caratteristiche dei personaggi in elementi scenici simbolici anziché lasciarle recitare ai cantanti (a quasi tutto si può trovare un nobile antecedente, ma non tutti i nobili sono invitati graditi ovunque). L’intera azione è stata ambientata sulla riva dove all’inizio naufragano e salpano alla fine gli italiani, in una gaiezza cui hanno contribuito i colorati costumi turcheschi, eccezion fatta per quello con cui Isabella dovrebbe essere più seducente, ed è invece risultato più goffo che buffo. Lindoro, che con buona trovata si attacca al collo la palla da prigioniero quando Mustafà lo obbliga a sposare la sua consorte rompitimpano, ha espresso la velleità infantile celata sotto il convenzionale ruolo da innamorato: nella prima cavatina collocando una barchetta di carta in equilibrio sullo zampillo di una fontana, nella seconda scodellando castelli di sabbia. Al sopraelevato Taddeo, al momento della nomina a Kaimakàn, sono state apposte gigantesche braccia e gambe mobili per sottolineare la grottesca vanità del titolo ottenuto. Mustafà è stato oggetto di particolari attenzioni: un applaudito mimo ha impersonato una tigre che lo ha costantemente accompagnato, esternazione della sostanza ridicola del suo virilismo, impegnata anche in un paio di lazzi con Taddeo; per niente chiaro invece il significato di quelle tre che lo stesso Font ha definito «odalische affascinanti» e sono parse al contrario ingombranti (benché minuti) giannizzeri al femminile con movenze da fumetto di Pucca. Le idee migliori sono risultate le più sobrie: la toeletta di Isabella fra tre specchiere quanti i suoi voyeurs, colla sua silhouette sculettante dietro un tappeto; il lancio di cuscini di Mustafà a Taddeo che non lo lascia solo con la protagonista; la divisa da cuochi per gli adepti dell’ordine dei Pappataci, col sultano che si ingozza di spaghetti in cima a una solenne scala, sbrodolando pappagallescamente il solenne giuramento. Una gestualità poco inventiva e ingessata ha invece contribuito non poco allo scialbore dei finali.


Daniela Barcellona e Simone Alaimo
in una scena dello spettacolo

Attento a non smuovere il materiale politicamente scorretto della trama, l’allestimento ha reinterpretato poi con decisione il quindicesimo numero, nota quanto dubbia manifestazione prerisorgimentale: un enorme fiasco (evocato effettivamente nel libretto da Taddeo) funge da cannone intorno a cui si radunano gli italiani, accesi d’amor patrio da Isabella, con palloncini trasparenti a forma d’Italia in mano. Ma la messa in scena ha volto così in caricatura anche l’elemento nazionalistico, mentre la musica di Rossini la contraddiceva, prendendosi invece sul serio, e si è creata una scollatura. Il cambio di tono dal buffo al serio che qui interviene nella drammaturgia originale è forse semplicemente un intoppo, che l’atteggiamento canoro – di cui si è detto – e la regia non hanno appianato ma messo in evidenza. E questo esperimento suggerisce che anche nelle conclamate opere di genio qualcosa può perdere vita, e anziché rivestirlo in maniera inefficace, meglio sarebbe sottrarlo agli scrupoli filologici che il senso comune ha fatto propri.

 

L'Italiana in Algeri



cast cast & credits


Daniela Barcellona



Simone Alaimo, John Osborn, Daniela Barcellona e Bruno de Simone






 
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