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Il sesso non inutile

di Donato De Carlo
  Erika Sunnegårdh
Data di pubblicazione su web 29/01/2010  

Salome di Richard Strauss è il primo capolavoro e successo della tradizione wagneriana, un Musikdrama colmo di erotismo al cui spirito sembra difficile tener fede oggi che - centocinque anni dopo la sua prima rappresentazione – l’épatement des bourgeois è un mezzuccio consunto, e di sesso a sproposito son piene le fosse e gli occhi. E invece il suo nuovo allestimento, con cui il Teatro Comunale di Bologna ha aperto la propria stagione, è risultato tanto efficace quanto calibrato. Vero problema ne è stato l’equilibrio sonoro tra fossa e scena, famigerato cruccio di questo genere teatrale, e va considerato che la sala del Bibiena ha un numero di posti pari alla metà della capienza minima considerata da Strauss propria di un teatro da “grande opera”, qual era per lui Salome. Se è da apprezzare l’impegno dell’orchestra e del suo direttore Nicola Luisotti nel rendere la polifonia della partitura, i fiati hanno molto spesso annullato per eccesso di zelo il registro medio-basso dei cantanti; poteva fare eccezione Mark S. Doss, nella parte del profeta Jochanaan, inscalfibile sulla pedana, ma ha pagato anch’egli il fio venendo imprigionato al di sotto di essa: anche la legittima voce di Dio ha dei limiti all’opera. Ha su ciò fatto comunque premio il ritmo drammatico della direzione di Luisotti, e la sua coerenza con la regia, in serio ascolto della musica, di Gabriele Lavia.

 


Una scena dello spettacolo
 

Tutta l’azione si svolge su uno scosceso piano roccioso di presago colore sanguigno, in cui si aprono due crepacci, uno dei quali prigione dell’ispido Jochanaan.  I personaggi, che entrano a scena aperta prima dell’attacco della musica per esibita finzione cara al regista, sono tutti in costumi d’inizio Novecento (ma l’orchestra non offrirà inflessioni di valzer viennese), uniformi militari ed eleganti abiti da sera il cui contrasto con la scabra ambientazione suggerisce la precarietà del mondo che agirà. Solo la lunga tunica della protagonista ricorda la Roma imperiale; in questa veste d’un bianco verginale Salomè vive la sua attrazione per il misterioso Jochanaan con adolescenziale introversione, disinvolta però nel tentare Narraboth per farsi mostrare il prigioniero. Se nella prima parte la scena sembra prender tempo, fino a consegnarsi del tutto, semioscurata, alla musica nel lungo interludio che segue la maledizione, al momento dalla danza tutto si fa serrato con proposte ben più interessanti delle laconiche indicazioni dello stesso Strauss.

 


Erika Sunnegårdh in una scena
 

La luna, simbolo centrale del dramma originario di Wilde, scende e si trasforma in lente d’ingrandimento, sorta di soggettiva di Erode, ad amplificare il voyeurismo della scena, che inizia con movimenti composti, quali il compositore auspicava, per poi diventare progressivamente rivolta a Jochanaan, fino all’ottima intuizione di far spasimare Salomè intorno al crepaccio proprio mentre in orchestra si ode il secondo tema del profeta (compiutamente esposto all’inizio della terza scena, al momento dell’emersione del Battista, diviene più avanti nel canto la “musica misteriosa” che Salomè dice aver udito nella voce di lui). Nella lente, alla stretta finale, si vede la protagonista turbarsi e denudarsi di spalle per correre infine a scoprirsi il seno davanti a Erode e sottrarglisi appena il patrigno le strappa l’ultimo velo. Le guardie la ricoprono, pudicamente rannicchiata, di una tunica scarlatta, emblema del trapasso alla sensualità consapevole e mortale: la giovinetta chiusa nel suo corpo che doveva appoggiarsi alle lance delle guardie per marcare il risentimento nei confronti del concupito che la rifiutava, d’ora in poi ha una gestualità marcata e aggressiva, fino a urlare sul muso del tetrarca. Enunciato l’ordine di morte, alla lente si sostituisce una bruna bipenne, e dopo un bacio dato nell’ombra da Salomè a Erode che spezza il filo erotico teso tutto verso il Battista, di questi viene issata, come una bestia macellata, la vuota pelle capovolta, mentre la testa emerge, gigantesca e lapidea, dall’altro crepaccio centrale: l’eruzione del soprannaturale così ottenuta (che riassume in sé anche l’effetto del grande braccio del carnefice in Wilde) e il perverso deliquio di Salomè mollemente adagiata e serpeggiante su queste labbra di pietra chiudono con impatto il dramma, molto più delle soluzioni tradizionali.

 


Erika Sunnegårdh, Robert Brubaker e Dalia Schaechter

 

Convincenti sono state le parti secondarie - compreso il quintetto armonicamente scabroso dei giudei (il cui stupore è pure stato inquadrato dalla lente) - in particolare i due nazareni; buona, gestualmente misurata e senza scorciatoie per l’intonazione la prova dei ruoli principali, tutti dotati del physique du rôle. Mark Milhofer è stato un Narraboth languido ma ben timbrato e non svenevole, Dalia Schaechter un’Erodiade matronale e vibrante mai urlante o grottesca, ferma nella sua severità anziché in competizione con la figlia. Robert Brubaker, Erode, nobile e ritto nella sua lustra divisa per tutta la prima parte, è stato efficace senza eccessi anche nel turbamento. Mark S. Doss ha impersonato un fermo e stentoreo Jochanaan, impenetrabile alle lusinghe. Infine Erika Sunnegårdh ha percorso con saldezza tutta la parte di Salomè, compresa la danza, rimanendo sempre chiara, melodiosa e fascinosa; le mancano solo, nel registro grave, le dense ombre della morte.

 

 

 

Salome



cast cast & credits

 


Erika Sunnegårdh
nella danza dei sette veli
 
 

Erika Sunnegårdh
nella danza dei sette veli
 
 

Robert Brubaker

 


Mark S. Doss e
 Erika Sunnegårdh 




 

 
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