Unavventura sonora. È questo, forse, il modo meno approssimativo per tentare di descrivere Immolazione, ultima fatica musicale di Hans Werner Henze, cui lautore si limita ad apporre la laconica dicitura «per cantanti, strumentisti e pianoforte concertante». Sarebbe arduo, daltronde, ingabbiare in una definizione inequivocabile un lavoro che mette in musica un testo già di per sé elusivo di ogni etichetta come il dramatisches Gedicht (in italiano, alla lettera, “poesia drammatica”: ma è unespressione, conveniamone, che può significare tutto e niente) Opfer, che nel 1913 Franz Werfel inserì nel suo volume di liriche Wir sind. È unelusività presente fin dal titolo – Opfer in tedesco significa tanto “vittima” quanto “sacrificio” – anche se Henze gli attribuisce una chiave di lettura più esplicita, trasformandolo in Opfergang (Immolazione, appunto, dunque con un retroterra semantico che rinvia allidea di rito e di celebrazione). Che sia linnesto della musica a imprimere questa dimensione ritualistica a un testo altrimenti ben più sfuggente e indefinito? È possibile, tanto più che la profonda compenetrazione parola/suono che sinnesca tra la poesia di Werfel e la musica di Henze rende improbabile uno spostamento di prospettiva tra scrittore e compositore. Resta fermo invece che il sostrato ontologico del testo letterario (non a caso è Wir sind, cioè Noi siamo, il titolo della raccolta), con la sua utopia dellamore tra esseri viventi come possibilità di riscatto anche al di là della morte, e anzi forse solo a seguito di essa, viene recepito dallHenze di oggi, ottantatreenne e malato, con unadesione emozionata ed emozionante.
Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia
La dimensione ritualistica si esplicita soprattutto nellidea di affidare a una sorta di coro da tragedia greca (un quartetto vocale, chiamato ad agire sempre allunisono, composto da due tenori, un baritono e un basso) il commento dellazione, con lavvertenza, però, che qui il commento è dato dalle indicazioni sceniche chiamate a scandire il testo poetico: ricorrendo a quella che, nel teatro di prosa, definiremmo la via della lettura scenica, Henze mette in musica anche le didascalie del dramma in versi di Werfel. E sono proprio le didascalie i momenti più agghiaccianti di questo kammerspiel: quelli in cui si descrive prima il ferimento e poi luccisione del «cagnolino bianco e ben curato» da parte del fantomatico fuggiasco di cui non conosceremo mai né il nome né, soprattutto, i dettagli dellinquietante passato alla radice della sua violenza omicida.
Dunque, una serie estremamente diversificata di spunti: la drammaturgia claustrofobica a due soli personaggi (senza considerare il quartetto dei corifei e una laconica apparizione comprimariale); il personaggio del Fremde, ossia dello “straniero”, cruciale nellimmaginario di tanto romanticismo tedesco; lantropomorfizzazione del mondo animale, già magistralmente risolta, per limitarsi allambito operistico, dallo Janácek della Volpe astuta e qui attuata attraverso la geniale scrittura per vocalità tenorile del cagnolino. Per tacere di quanto rimane nella sfera del non detto ma intuibile, a cominciare dalla componente omosessuale e masochista (da un lato lo Straniero che nei suoi soliloqui accenna a un passato di umiliazioni anche sessuali, e se nomina una donna lo fa solo per insultare le prostitute del lungofiume, dallaltro il Cagnolino che lecca la mano che lo percuote e ringrazia per la giusta punizione); o anche la metafora del proprio angelo custode nascosto dietro sembianze insospettabili, fossero anche quelle di un piccolo e scodinzolante animale domestico (che Frank Capra si sia ispirato a Werfel per i suoi «angeli di seconda classe»?).
Henze – nonostante nei vorticosi cinquanta minuti di Opfergang qualche calo di tensione ci sia – riesce ad agglutinare tutto questo materiale con uninventiva musicale mai esornativa e sempre funzionale: una musica – insomma – operistica, così come operistica, nella calzante adesione drammatica al testo, è stata la musica di questautore anche in tanti altri lavori che nominalmente opera non sono, dalloratorio La zattera della Medusa alle cantate sceniche degli Apologhi morali. Ne scaturisce una sorta di drammaturgia del suono: la scrittura è assai elaborata, ma fedele più alla musa della consonanza che della dissonanza; la timbrica è ricchissima, grazie a un organico insolito che, oltre alluso del pianoforte in funzione concertante, prevede tra laltro il raro oboe baritono e un fulminante assolo di tuba wagneriana; la vocalità per il ruolo bassobaritonale dello Straniero si sostanzia in uno Sprechgesang dai tratti espressionistici, mentre la parte del cane cede il passo a una scrittura più fluida, non priva di lacerti melodici, talvolta ricorrente a un falsetto capace di esprimere dolore e serenità in egual misura. Ancora una volta, insomma, Henze dimostra qualità di musicista-narratore, per il quale il linguaggio musicale è un mezzo per approdare allimmagine – visiva e sonora – della vicenda che si va a raccontare. È un dono che si può avere solo se si è, anche, un grande operista: in questa prospettiva è sintomatico avere attinto a Werfel, che al mondo dellopera, sia come romanziere sia come traduttore tedesco di libretti verdiani, diede un contributo di primo piano. E il finale con cui il Cagnolino, ascendendo in cielo, ode un organetto che suona la Lucia di Lammermoor rappresenta ben più di un generico omaggio alla civiltà del melodramma, se si pensa che allanatomizzazione di questopera Werfel dedicò un capitolo del suo romanzo incompiuto La messa nera.
Antonio Pappano e John Tomlinson
Lavventura sonora henziana ha trovato un mediatore efficacissimo ed entusiasta in Antonio Pappano che, restando anche al pianoforte, ha diretto lOrchestra dellAccademia Nazionale di Santa Cecilia coniugando ritmo narrativo e senso del dettaglio: con una dialettica tra capacità di sintesi e capacità di analisi che, a ben vedere, rappresenta il suggello di questa partitura. Ha rischiato, a fronte di tanta adesione, di apparire meno motivato nella seconda parte della serata, che proponeva il mahleriano Das Lied von der Erde. Qui Pappano sembra eludere ogni tentazione di afflato cosmico per rifugiarsi in un Mahler non tanto grandiosamente panteistico quanto liricamente soggettivo, dove il «canto della terra» cui il titolo fa riferimento dà lidea più di unumana riflessione “attorno” alla terra che di un canto universale “della” terra medesima: una chiave di lettura che sarebbe stata meglio supportata da un tenore meno epidermico di Simon ONeill (la cui emissione rende il registro acuto voluminoso, ma non squillante) e da un contralto meno inamidato di Anna Larsson, corretta ma fievole sul piano vocale e interpretativo (solo nel Lied finale dà lidea di giungere a una vera compenetrazione).
Anche in Henze – una volta resa lode ai coristi di Santa Cecilia che si facevano carico delle parti di fianco – era possibile trovare qualche magagna sul fronte canoro, perché il veterano John Tomlinson ha mezzi oggettivamente usurati (oltre che un po troppo da autentico basso, per un ruolo da basse-baryton) e soggettivamente poco adatti a un personaggio la cui fisicissima violenza non richiederebbe un cantante anziano. Grinta e carisma, comunque, gli assicurano lonore delle armi. Entusiasma invece la musicalità infallibile e la voce non bella, ma sfumata e penetrante, di quel Mirto Picchi di oggi che è Ian Bostridge: un Cagnolino candido e struggente, sospeso tra fiducia incantata e cognizione del dolore. Il vero entusiasmo però, come conferma lapplauso del pubblico quando lautore si alza dalla poltrona, è per Henze. E, questa volta, anche per il committente: sembra incredibile, ma a tuttoggi nessun teatro italiano aveva commissionato un lavoro a colui che è forse il maggior musicista vivente, e per giunta da svariati decenni vive in Italia. LAccademia di Santa Cecilia ha avuto la lungimiranza di farlo: difficile dire se Immolazione entrerà in repertorio, ma i tempi in cui allOpera di Roma (1954) cadde tra i fischi Boulevard Solitude sono ormai lontani.
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