Chi non ha mai ballato col carrello della spesa? Chi non ha mai saltato sulla poltrona di casa ascoltando musica a tutto volume? I performers di Troubleyn – la compagnia belga di Jan Fabre che prende il nome dalla madre dellartista – si congedano con una scarica di energia liberatoria alla fine di un crescendo di musica e trovate geniali, che risollevano in corsa uno spettacolo partito troppo lentamente con la monotonia della provocazione. Che Jan Fabre sia scandaloso, blasfemo, osceno, se lo aspettano tutti. Inaspettato è il persistere delloscenità, il reiterarsi cieco e mai veramente pornografico di una masturbazione collettiva, ora in gara, ora in salotto, ora nella perversione dellufficio vuoto di venerdì sera. È questa stanchezza nella ricerca del piacere – nellatmosfera fumosa da café chantant – la chiave di volta di una rivelazione, che il piacere sia venduto, o imposto, in modo da lasciar sempre insoddisfatti, col desiderio di averne ancora. Così lequazione edonista dello shopping and fu**ing si concretizza nel versante fashion dello spettacolo. Un lavoro molto parlato e poco danzato: quasi un delitto, avendo a disposizione nove strepitosi danzatori, troppo belli per essere solo ballerini, troppo bravi per danzare solamente.
Una scena dello spettacolo
Lescalation di sorprese comincia con lo splendido tableau vivant di un Cristo dalle fattezze fiamminghe, sperduto in una casa di moda e cooptato come top model per un photoshoot da copertina, dove non si riesce a capire che ruolo avrà la croce, scambiata per uno scarto di doghe di letto. Questo Jesus con collana, giacca leopardata e occhiali da sole svanirà nellalienazione del suo gesto preferito, far vibrare la croce in equilibrio su una mano, gesto intenso e sconcertante che vedremo ripetersi anche dopo, senza la croce, in tuttaltra scena. Cè sempre, nei quadri collettivi, un personaggio fuori rotta, che si dimena per terra con gran maestria interpretativa e tecnica, o si dispera nel suo essere bersaglio di violenza, verbale o fisica. Come se dietro i bagliori della superficie qualcuno si caricasse di ogni dolore. Gli attori-musicisti-danzatori di Troubleyn resteranno sbracati sulle poltrone Chesterfield - sciarpone nero, basco e maglione melange - a dibattere con fare post coloniale sul diletto di un negro in giardino o sulle declinazioni e ambiguità del verbo “venire”. Veri “guerrieri della bellezza” (dalle note di sala di Achille Bonito Oliva), sottopongono il pubblico a una terapia durto di azioni fuori dal senso comune, lanciando sguardi dorrore e dentusiasmo così forti da fulminare gli spettatori dellultima fila. E danzano, saltano, si inceppano: il roteare leggero tra le poltrone è un raro momento di sollievo dalle ostentazioni di cui gli interpreti si fanno carico, motteggiando brandelli di canzoni, «…Fear creates work. Without fear: no war, no jobs…», con una rabbia smorzata dalleleganza francesizzante del loro inglese.
Una scena dello spettacolo
Dai divani Chesterfield, protagonisti dellazione quanto i performers, si delinea un altro potente quadro, di sconvolgente verità, esplicitata dallo stesso Fabre in unintervista allEspresso: «Guardo spesso la televisione, anche se la detesto. […] Quella notte restai fino all'alba seduto di fronte a immagini di violenza, perversioni e falsi orgasmi. È lì che ho capito che la pornografia non è più devianza, ossessione, ribellione, ma una forma di controllo sociale. La tolleranza è diventata potere. La vulcanica energia del corpo simulazione. E da qui arriva Orgy of Tolerance la messa in scena di una società che finge di permettere tutto, ma fa vincere la destra più sordida. La democrazia che ha il volto della dittatura, la trasformazione dei cittadini in passivi e ottenebrati consumatori di tutto, perfino del loro stesso corpo». Ecco come, dalleffimera sensazione di potere data dal telecomando, gli spettatori vengono assaliti dai miliziani del consumismo, costretti con frustate e calci a confessare di non aver comprato lultimo videogioco o liphone next generation, e tradotti con violenza al supermercato: qui il genio visionario di Fabre sublima leccesso e sperimenta lestetica dei carrelli della spesa, protagonisti di una splendida danza sulle note del Danubio Blu.
Come Alex il drugo in Arancia Meccanica, costretto a vedere scene di violenza senza poter chiudere gli occhi per non colpire più, il pubblico di questorgia del consumismo si porta a casa inconsapevolmente un senso di nausea per tutto ciò che è prodotto e mercato. Non mi spiego altrimenti il disgusto per le vetrine e i negozi che ho provato il giorno dopo in giro per Roma, una repulsione bizzarra e inedita, cui ho dovuto accondiscendere ricordandomi dello spettacolo del giorno prima. Su quel palco ho visto gli orrori di questo tempo proiettati nella visione da entomologo di Jan Fabre: il Ku Kux Klan, Abu Ghraib o la divinizzazione del denaro. Persino le gestanti partoriscono prodotti da centro commerciale, direttamente nel carrello, in una scena divertentissima, che si aggancia al filo potente dellironia che percorre tutto lo spettacolo. Fino alla fine, quando dopo quasi due ore lesilarante e dirompente coro con sottofondo rock manda aff*** «[…] tutti quelli che sono venuti stasera solo per vederci nudi! Tutti quelli che sono entrati col biglietto omaggio! Tutti i direttori dei festival di teatro! Tutti gli artisti contemporanei, fate qualcosa di diverso da quello che farebbe un bambino allasilo! Il ministro della cultura, che lanno scorso era ministro dellagricoltura! I politici, che tolgono i soldi al teatro! ». E persino al regista: «Pagami di più!». «Fu** you Jan Fabre!». Davanti allassalto a più voci con fucili spianati il pubblico ride e incassa, ognuno per la propria categoria, ognuno con le proprie colpe.
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