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Non tutti gli Stabili vengono per nuocere

di Siro Ferrone
  Tartufo
Data di pubblicazione su web 07/04/2001  
Si potrebbe citare il bellissimo spettacolo diretto da Toni Servillo per la compagnia dei Teatri Uniti, in coproduzione con il teatro di Roma, per dimostrare che non tutti i teatri stabili vengono per nuocere, e in parte è vero. Il merito però di questo intelligente risultato (che proprio per la sua umile nobiltà artigiana non dovrebbe essere un'eccezione) non dipende minimamente dal contesto produttivo in cui è stato inserito, a cominciare dal debutto al Teatro Argentina. È semmai il Teatro Stabile di Roma a ricavare vantaggi da questa affiliazione, quasi un cosmetico chiamato a nascondere la propria vetustà.

In primo luogo la collocazione spaziale e scenografica. Ferdinando Taviani, in un intervento assai felice, contenuto in un foglio volante che accompagnava lo spettacolo, lo ha analizzato con acutezza: «In palcoscenico, il pubblico è sui due lati, due tribune perpendicolari alla quarta parete del sipario. Che diventa una vera parete. Una saracinesca con la sua porticina, L'esterno tagliato fuori è un teatro ricco. Noi spettatori non lo dimentichiamo, nel corso dello spettacolo. Questa non è una trovata. Non è un espediente per risolvere le esigenze dell'assetto spaziale previsto dal regista. Questo gioco fra dentro e fuori crea una cassa di risonanza mentale. È drammaturgia allo stato puro. O regia, se si preferisce. Lo spettacolo scorre fra le due sponde di spettatori. E il suo scorrere è fatto di continue tensioni fra l'uno e l'altro estremo. Due personaggi dialogano, fra loro c'è molto spazio. Ci rigiriamo per guardare-ascoltare l'uno, ci giriamo per guardare-ascoltare la risposta dell'altro. Questa è attenzione materializzata. È lo spazio teatrale che dà corpo all'idea del dialogo come base del dramma».

È questa l'analisi del testo che interessa, fatta di corpi percepibili nel dettaglio, coordinati e legati da una recitazione che è un tutt'uno con il quadro compositivo d'insieme di cui gli spettatori sono parte integrante. Questa è l'unità espressiva di cui parlavamo prima. Lo stile e la lingua della traduzione di Cesare Garboli - che non sempre possono piacere per qualche compiacimento minimalista o letterario - cadono qui alla perfezione. In un alternarsi di distanze e primi piani, distribuiti lungo l'asse della scena, a ridosso o a distanza dalla fila dei gradoni, gli attori sono distanti e vicini, appartengono alla nostra quotidianità e alla nostra memoria culturale.

Non sono d'accordo invece con quanto scrive Taviani circa la necessità di porre questo impianto scenico sul palcoscenico del teatro, calando il sipario tagliafuoco, salvo a riaprirlo all'atto del lieto fine (la ben nota concessione che Molière fa ai suoi doveri cortigiani). È vero che quel finale, dopo una recita quasi clandestina, con l'improvvisa illuminazione dei palchi e della sala del teatro all'italiana rende «plausibile il salto drammaturgico», cosicché «l'invenzione registica coincide con la precisione d'una nota filologica». È un'osservazione colta e intelligente, ma non può essere addotta per spiegare quella che è invece, davvero, una trovata, o meglio un compromesso furbo tra teatro Stabile e teatro autentico. Non è neanche vero che in questo modo due diverse tradizioni teatrali possano coesistere con pari dignità sullo stesso piano di rappresentazione: il teatro all'italiana e il teatro a pianta centrale.

In realtà Servillo e i suoi eccellenti attori hanno fatto quello che fecero i commedianti di Molière. Hanno pagato la tassa di una consacrazione (né la prima né l'ultima, probabilmente) nei salotti dell'establishment usando la stessa moneta dei loro predecessori. Il giochino, un po' ronconiano, degli spettatori sul palcoscenico e della sala vuota, con il coup de théâtre finale, non sarebbero andati a cercarselo i valenti comici partenopei se non ci fosse stato l'obbligo di accettare (immagino con gratitudine) l'invito a corte del loro amico e compagno di strada, l'altro partenopeo e allora direttore dello Stabile romano, Mario Martone.

Il merito di Servillo e compagnia è quello di avere recitato questo cedimento allo stanco teatro di regia tardonovecentesco con allegria e con gusto, sapendo che si tratta comunque di un gioco ai margini delle stanze del potere. E del resto il loro Tartufo - intendo dire il personaggio - altri non è, come ancora una volta ha ben notato Taviani, che un poveraccio, un po' sporco, guardingo, forse minacciato e fuggitivo, ai limiti delle sue forze. Il correlativo oggettivo dell'attore in cerca di scrittura, di successo e di fortuna, pronto a prendere i soldi per la sua sopravvivenza ovunque questi si trovino, servendosi del suo istrionismo.

È vero - si intuisce che c'è del «feeling» - tra gli attori e Tartufo, nonostante la trama quasi sempre dica il contrario. Tartufo è un perdente fin dall'inizio, schiacciato da una casa borghese potente da cui sarà schiacciato nonostante il tentativo di conquistarla e dominarla. Gli attori di Servillo, nel sottotesto, hanno recitato una sorta di Miseria e nobiltà, in cui essi si sono travestiti da attori funzionali (pensionnaires del Teatro di Roma) ma per fortuna hanno conservato i pregi della loro povertà artigianale. Allegramente, come in un carnevale, hanno dimostrato quanto la loro arte fosse irriducibile alla norma del teatro pubblico italiano e di regia, citandola ma senza prenderla sul serio, con un paziente e lungimirante sorriso napoletano.

Tartufo
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