Fu sui sentieri del West che incontrai per la prima volta Tullio Kezich. Non che fossimo tutti e due a passeggio nella Monument Valley. Fu un libro a farmelo conoscere, intitolato, appunto, Il western maggiorenne (stampato nel 1953 da Zigiotti, un piccolo editore di Trieste). Io ero un ragazzino che amava molto il cinema; lui un giovanissimo critico dassalto, attraversato dallintelligenza e dalla curiosità (a quei tempi fare un saggio sui “soldati a cavallo” non era cosa scontata, almeno in Italia). Da allora, ho seguito sempre con appassionata fedeltà le recensioni e i saggi di Tullio, sui tanti autorevoli giornali per cui ha collaborato nel corso della sua lunga e brillante carriera. Per la verità quel vecchio libro, che ancora conservo nella mia biblioteca, non era tutto suo; cerano saggi di diversi autori, piuttosto importanti per la storia della critica, come Renzo Renzi, Guido Aristarco o Callisto Cosulich. Ma il dettaglio conferma la vivace apertura del “curatore”, la sua disponibilità a formare un gruppo, pur nel pieno rispetto delle singole e originali individualità.
Fu solo una ventina danni dopo (forse anche di più) che conobbi, non senza un senso di timida riverenza, Kezich a qualche festival, alluscita di una proiezione e poi a cena con amici (uno su tutti: Orazio Gavioli, impareggiabile capospettacoli della prima «Repubblica»). Non vorrei fare della retorica: ma erano serate bellissime, si parlava del cinema, dei giornali (e della vita) con leggera allegria. Tullio era una miniera, raccontava dei suoi registi del cuore e della sua idea di cinema. Fra gli italiani naturalmente il prediletto era Federico Fellini, frequentato con amichevole assiduità e studiato nei minimi dettagli. Gli appunti di Kezich dal set della Dolce vita sono un racconto pieno di avventure: se non lavete già fatto, rileggeteli nellultima edizione proposta allinizio del 2009 da Sellerio, Noi che abbiamo fatto La dolce vita. Ma il legame era profondo anche con altri maestri del nostro cinema, da Ermanno Olmi a Francesco Rosi, con cui Kezich aveva collaborato per il vibrante Salvatore Giuliano. Narratore e scrittore di teatro, Tullio era stato anche produttore nei primi anni Sessanta, favorendo il varo di alcune importanti opere prime, come Il terrorista (1963) di Gianfranco de Bosio o I basilischi (sempre del 63) di Lina Wertmüller. Eppure gli affettuosi legami con gli autori non erano diventati “relazioni pericolose” per lindipendenza del critico, che nel momento del giudizio diceva il suo parere, in serena libertà.
Se posso parlare un attimo di me, confesso che considero Kezich, insieme ad Oreste Del Buono, lamico-maestro più importante della mia vita non solo “professionale”. Delle sere a volte mi divertivo a farlo arrabbiare, discutendo del western appunto. Da amante del periodo classico, Kezich diffidava un pochino degli incendiari del decennio Sessanta, Sam Peckinpah e Sergio Leone (da me invece adorati). Era allultimo bicchiere che lanciavo la provocazione: «Butterei via tutto John Ford, per la passeggiata finale e il massacro sterminatore del Mucchio selvaggio». Tullio allora scuoteva la testa e non replicava nemmeno. Si limitava a chiamare il cameriere e a chiedere il conto, perché non «si divertiva a parlare di cinema con gli ubriachi». Anche se continuo ad adorare Il mucchio selvaggio e Cera una volta il West, io in quelle serate esageravo (a posta, lo ammetto) quando proponevo di gettare via John Ford: mi divertivo con un paradosso improponibile. E ora che il lungo addio è dolorosamente arrivato, mi piace immaginare Tullio come lindomabile Ethan (John Wayne forever) che nel finale di Senteri selvaggi, dopo la galoppata disperata durata anni, si allontana con epica lentezza verso limmensità della prateria deserta.
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