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Estetica del proiezionista

di Marco Luceri
  Bastardi senza gloria
Data di pubblicazione su web 05/10/2009  

E' stato uno dei film più attesi dell'anno e non ha deluso le aspettative. Se esiste ancora un fenomeno Quentin Tarantino nel cinema contemporaneo oggi più che mai è vivo e consistente: ci sono pochissimi registi infatti che riescono ancora a portare il giorno d'uscita dei loro film così tanti spettatori nelle sale. Basterebbe solo questo forse per smentire le infauste cassandre che davano la stella dell'enfant terrible di Hollywood ormai avviata a un fisiologico declino, dopo il dittico di Kill Bill! (2004). Conscio invece della sua non affatto appannata immagine divistica, quando Tarantino è arrivato sul tappeto rosso del Festival di Cannes per l'anteprima internazionale del suo ultimo Bastardi senza gloria ha inscenato con Melanie Laurent (una delle protagoniste del film) una buffa pantomima, quella del celebre ballo tra Uma Thurman e John Travolta in Pulp Fiction (1994), giocando così, a suo modo, di fronte ai flash divertiti dei fotografi, sul registro della riconoscibilità.

Una dichiarazione d'intenti, un modo per riaffermare la sua ricercata centralità nel mondo dell'immaginario globalizzato o, più semplicemente, una trappola? Potremmo optare per la terza opzione, visto che Bastardi senza gloria è dichiaratamente un film che avrebbe potuto fare solo Tarantino, con la piacevole sorpresa, però, che esso in realtà differisce, e tanto, dalle sue prove precedenti. Che una svolta si stesse preparando era forse percepibile dall'ingiustamente sottovalutato Grindhouse – A prova di morte (2006), dove il gioco rutilante, ma autoironico, della citazione cinefila raggiunge livelli quasi parossistici e oltre il quale, probabilmente, era impossibile andare. In effetti, guardando Bastardi senza gloria, si percepisce chiaramente il tentativo di rassicurare da una parte il pubblico dei tanti spettatori che amano riconoscersi e immedesimarsi nel suo "mondo" e dall'altra l'esigenza di osare, di spingersi verso una struttura narrativa e linguistica più audace, meno controllabile e quindi necessariamente poco riconoscibile. Quest'ultimo film appare quindi come il tentativo di cercare un equilibrio tra queste due istanze.

Da un punto di vista drammaturgico la pellicola presenta infatti uno dei temi per eccellenza del cinema tarantiniano, ovvero quello della vendetta. Ambientato nella Francia occupata dai nazisti nel 1944, è la storia di una banda di soldati americani (quelli che danno il titolo al film), guidati dal duro Brad Pitt (che sta sviluppando una considerevole vis comica), che si prendono l'onere e l'onore di ammazzare senza pietà quanti più nazisti è possibile, con il truculento particolare di dover loro asportare lo scalpo. A questa storia si lega quella di una ragazza ebrea che, sfuggita dall'eccidio in cui è stata sterminata la sua famiglia, si trasferisce a Parigi per gestire un cinema nel quale si ritroverà a ospitare la première di un film tedesco alla presenza dei maggiorenti del Terzo Reich (Hitler compreso). Il suo progetto di far saltare in aria il cinema con tutti dentro, con la complicità indiretta dei bastardi senza gloria, tuttavia si unisce, ma non si sovrappone, alla missione di questi ultimi. Nonostante quindi le due tracce narrative procedano in parallelo, esse non si sovrappongono, se si escludono naturalmente l'unità di luogo (la sala cinematografica dove dovrebbe avvenire il duplice attentato) e la figura del terribile aguzzino nazista, il colonnello Hans Landa (Christoph Waltz): la tendenza quindi al racconto episodico (presente nei film precedenti) resta, ma viene dilatata lungo le due direttrici principali, e questa è già una novità. Anche l'azione (che il codice di genere imporrebbe come fondamentale) è fortemente ridimensionata a favore del grande spazio riservato ai dialoghi e alle battute (i cui effetti comici e drammatici sono assicurati), vero e proprio stilema tarantiniano.

Il tessuto di citazioni, si diceva, c'è ed è importante, ma non pervade l'intera struttura del film: è emblematica in questo senso l'immagine d'apertura, che si presenta come un omaggio agli sconfinati spazi del western alla Ford (con tanto di fattoria e padre spaccalegna), quando poi in realtà è solo un pezzo di terra della campagna francese. E così via: sia il gioco di rimandi ai grandi maestri (Pabst, Lang, Murnau, Von Sternberg, Hawks, Riefenstahl) e al b-movie, sia il rimescolamento dei generi (dal war-movie al melodramma, dalla commedia brillante allo spaghetti-western) stavolta non è funzionale solo a far bella mostra della cinefilia espressiva del suo autore, ma a ristabilire il potere del cinema di produrre immaginario e la sua (acquisita) legittimità a riscrivere la Storia, rimodellandola, rimontandola e mixandola come si fa in moviola o anche solo in una cabina di proiezione. La grandiosa scena del rogo e dell'esplosione finale, che abusa volutamente dell'uso simbolico delle immagini, è un vero e proprio monumento al potere demiurgico ed estetico del proiezionista, dispensatore di immagini, e al cinema come strumento di rappresentazione e spettacolarità.

Bastardi senza gloria può dunque essere il definitivo approdo di Tarantino a un livello inedito (per lui) di autorialità? Alla fine, il duro Pritt, rivolgendosi direttamente allo spettatore, sussurra serafico: «Sai? Questo potrebbe essere davvero il mio capolavoro». Che abbia ragione?

 

Bastardi senza gloria
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