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Il destino di una famiglia

di Federico Ferrone
  White Material
Data di pubblicazione su web 12/09/2009  

E’ forse anche per ragioni biografiche se Claire Denis, fin dal suo film d’esordio Chocolat esplora il tema della diversità e, più precisamente, di cosa significhi essere bianchi in Africa. Figlia di un ufficiale coloniale, la regista francese è cresciuta tra Camerun, Gibuti e Burkina Faso, prima di divenire l’assistente di mosti sacri come Jacques Rivette, Jim Jarmusch e Wim Wenders e poi dedicarsi da sola alla scrittura e la realizzazione di venti lungometraggi. In White Material, sceneggiato insieme alla scrittrice franco-senegalese Marie N’Diaye, la regista ritorna una volta di più sul tema. Al centro della vicenda c’è la storia dei Vial, una famiglia francese di coltivatori di caffè installata da generazioni in un paese africano. Quando il caos s’impadronisce del paese, minacciato dalla rivolta interna di un gruppo ribelli capeggiati da un fantomatico soldato conosciuto come “le boxeur” (Isaach de Bankolé, già visto nel ruolo del gelataio incapace di imparare l’inglese in Ghost Dog), anche l’equilibrio familiare crolla. Maria, la madre (Isabelle Huppert), si rifiuta di capire le minacce e, mentre tutti i suoi lavoratori fuggono dalla zona, lei continua a occuparsi del suo raccolto incurante delle minacce e dei venti di guerra. André, il padre (il redivivo Christophe Lambert, perfetto per malinconia) cerca di organizzare una fuga affidandosi a un ambiguo politico locale ma al contempo è incapace di scuotere sua moglie dall’illusione che tutto presto si risolverà per il meglio. E mentre il padre di André, il patriarca della famiglia (Michel Subor), vede distruggersi il lavoro di una vita, il giovane Manuel impazzisce letteralmente, imbracciando le armi e consegnandosi a morte certa (Nicolas Duvauchelle).



Anche se alcune recensioni parlano esplicitamente di Camerun, il film di Claire Denis mantiene volutamente l’ambiguità sul paese in cui si svolgono i fatti, quasi a significare che un simile scenario potrebbe svolgersi anche in altri luoghi, africani (pensiamo soprattutto alla Costa d’Avorio), caraibici ma in fondo anche asiatici. Non ridano sotto i baffi i detrattori del cinema francese: White Material, che sarebbe il modo in cui vengono chiamati i bianchi in alcune parti dell’Africa, è un film sulle incomunicabilità, siano esse tra europei e africani o all’interno di ciascuna famiglia. Eppure non ha niente di banale, lento o ottusamente intellettualistico. Per niente ripiegato su se stesso, è un film duro, addirittura virile malgrado regista, sceneggiatrice e interprete principale siano tre donne. Come sempre impressionante, Isabelle Huppert crea un personaggio ambiguo, un po’ “madre courage” ma soprattutto sospeso tra l’algida determinazione e la follia che avevano segnato alcuni dei suoi più celebri ruoli. Apparentemente senza speranza e per alcuni irrisolto nella forma, è un film che parla di un luogo, per quanto indefinito, molto concreto, offrendo elementi di denuncia reali: l’Africa post-coloniale dei bambini soldato, dei conflitti interni e delle milizie private. Ma allude a qualcosa di più grande e astratto: la diversità, lo sradicamento (sarebbe forse a casa sua Maria, una volta tornata in Francia?), la sconfitta, la vendetta e il senso di colpa del bianco in Africa, anche quando non è direttamente responsabile della colonizzazione o dello sfruttamento. Nella sua rarefazione e tragicità cosmica è anche un film più politico di molte opere apertamente di denuncia.



White Material
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