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La caduta della polis

di Carmelo Alberti
  Warner Bentivegna (Cadmo) e Galatea Ranzi (Agave)
Data di pubblicazione su web 18/05/2002  
In primo piano si collocano i rumori reali della città, che per scelta di Ronconi introducono nella rappresentazione la dimensione del quotidiano. Al centro dell'orchestra sbuffi di fuoco annunciano l'arrivo di Dioniso a di Tebe. Fin dalle prime battute della tragedia il protagonista proclama in modo chiaro la sua identità di nato dall'unione di Zeus e di Semele, una donna che lo partorisce mentre è incenerita dalle fiamme che proteggono l'invisibile essenza divina. Se la sfida di Prometeo investe direttamente il potere degli dei, il progetto di Dioniso tende a rendere universalmente evidente la rivelazione di una natura superiore agli uomini e invisa agli eredi della stirpe di Cadmo. Massimo Popolizio (Dioniso) già nell'affacciarsi in scena emana l'aura della propria superiorità fisica e adopera i toni recitativi accesi e sostenuti di chi è nato per il comando. La fierezza del suo aspetto e l'asprezza del suo dire contrassegnano con chiarezza la pista lungo la quale si sviluppa il dramma: Dioniso vuole imporre un culto misterico che abbia come effetto visibile l'abbattimento di ogni esitazione, di ogni dubbio sulla sua devastante potenza.

Le donne del coro delle Baccanti si presentano in scena già fecondate dal dio: i movimenti che eseguono e le posizioni che assumono tendono a coniugare l'idea di possessione e di attesa; sottomesse e pregne agitano il tirso, in gesto di minaccia. Il loro canto si scioglie in un'eco che insegue la trama degli ingressi e delle uscite, mentre le azioni si raggelano in una sospensione minacciosa. Il pericolo minaccia il versante del maschile, come se nella mente dell'implacabile divinità sia germogliato il proposito di rigenerare l'intera stirpe del mondo e di sopprimere l'inutile presenza dei maschi. È un rischio che intuiscono due vecchi saggi, Tiresia, l'indovino cieco, interpretato da Luciano Virgilio, e Cadmo, il malconcio re, affidato al bravo Warner Bentivegna. Per ragioni opposte, il primo sull'onda della rivelazione, il secondo per convenienza politica, entrambi s'affannano a raggiungere il monte per rendere onore al dio dell'ebbrezza, mimando una goffa e pietosa danza sacra.

La regia accentua la frattura che si apre fra la generazione degli uomini antichi, che hanno imparato a interpretare l'intransigenza delle divinità, e quella degli uomini nuovi, senza memoria, predestinati al sacrificio, qui compresi nella figura di Penteo, colui che prova dolore; la connotazione espressiva che Ronconi suggerisce a Giovanni Crippa (Penteo) si traduce in un atteggiamento d'ingenua caparbietà, in un'insana fiducia nel potere che Penteo ha ereditato per ragioni di discendenza, in un limitato acume nell'interpretare i segni di un culto che proviene dalle viscere della terra.

Nella dinamica dello spettacolo il confronto tra Dioniso e Penteo è scandito dalle stazioni di una via crucis mitologica, il cui esito abbatte l'argine della certezza politica e apre una voragine che inghiotte l'idea stessa di civilizzazione. Se dapprima Dioniso si fa legare e interrogare alla stregua di un cristo, ben presto il procedimento tragico capovolge le posizioni: attraverso una sottile seduzione verbale il dio da condannato si muta in guida di un viaggio iniziatico che stuzzica la curiosità del giovane sovrano. Mentre la furia delle seguaci abbatte con un rumore assordante le pareti metalliche della prigione, la metamorfosi di Dioniso si mimetizza nell'ambiguità tipica del travestimento teatrale. Fingendo di essere un emissario del dio, costui scuote dalle fondamenta la reggia e, insieme, le certezze della polis; il tono sdolcinato e suadente innesca la curiosità di Penteo, pronto a farsi agghindare come una donna, pur di spiare il mistero del rito dionisiaco.

Una volta annullata la propria regalità sotto le spoglie femminili, colui che si è opposto al volere divino si trasforma in una vittima che vuole subire fino all'estremo la voluttà della propria inversione sessuale: Penteo è ormai preda delle brame di Dioniso. Attraverso la crudezza di un racconto, detto dal secondo messaggero con la doppia enfasi che impone un evento esemplare e incredibile, si realizza il capovolgimento delle parti, che passa dallo strazio delle carni della vittima compiuto da chi lo ha generato, la madre Agave, qui impersonata da una misurata Galatea Ranzi: la mente della madre si annebbia a tal punto da credere un atto di eroismo la più crudele delle azioni. Quando alfine si sveglia dal delirio, Agave sembra tornare bambina, mentre un urlo smisurato assorbe per intero lo smarrimento di chi ha smembrato il corpo a cui ha dato la vita.

Si dissolve grado a grado la fiducia nella coerenza della città, che Ronconi evidenzia nel silenzio degli spettatori - i cittadini di Tebe? - disseminati sulla scena. La traversata dell'incubo prodotto dal sacro si conclude con l'apoteosi del dio: dopo aver smesso l'abito nero che ha segnato il suo passaggio sulle terre degli avi, Dioniso trionfa avvolto dal candore che prelude l'ascesa al cielo, in mezzo alle costellazioni che hanno assunto il nome dei suoi progenitori-vittima, Cadmo e Armonia. La messinscena è parsa scivolare lungo i limiti di una trascrizione coerente, che evita però di compiere l'atteso balzo d'artista.



Le Baccanti di Euripide
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