Meno male che in Italia ogni tanto cè qualcuno che si ricorda quali sono i veri problemi della gente. Mentre infatti i nostri politici discutono sullannosa, gravissima questione del colore del fumo delle frecce tricolori sul cielo di Tripoli, il regista Marco Simon Puccioni (che ha alle spalle una già prolifica serie di corti e documentari incentrati su tematiche sociali ed esistenziali) ci riporta sulla terra, proponendo in questa finora assai deludente Mostra, un piccolo film che profuma dimpegno.
Lanno scorso qui al Lido il compito di farci tenere gli occhi ben aperti sulla realtà dellemarginazione se lera assunto Marco Pontecorvo con il bel PA-RA-DA; questanno invece tocca a Il colore delle parole prendere di petto il problema forse più tragico che il nostro Paese sta vivendo in questi ultimi mesi, quello dellimmigrazione clandestina e dellaccoglienza alle migliaia di sfollati che in fuga dai paesi del Terzo mondo cercano di rifarsi una vita nel ricco e opulento Occidente, e che si ritrovano (a volte) con paesi in cui ministri sedicenti eredi dei celti (quelli dalle grandi corna) preparano loro il benservito a colpi di decreti e di persecuzione penale.
È proprio questa la storia che si narra nel film: quella di quattro amici, musicisti, mediatori culturali e scrittori africani, tutti in Italia da oltre trentanni, che si battono non solo per i diritti degli immigrati, ma anche per far conoscere la loro cultura agli italiani. La loro storia parte infatti dalla fine degli anni Settanta e si snoda fino ai nostri giorni, attraverso un racconto fatto di amicizia, amori, lotte politiche, passioni calcistiche e musicali. Nel corso degli anni e delle varie stagioni che si sono ripetute nella storia dItalia, sono stati definiti via via come “studenti”, “vu cumprà”, “extracomunitari”, “immigrati”. Sempre e comunque, insomma, diversi: in tal maniera, quando potranno dirsi “italiani”?
Con uno stile asciutto, quasi da documentario, Puccioni trae spunto da una vicenda realmente accaduta per dipingere non solo la storia, epica e universale, a suo modo, di questi uomini, ma anche lincapacità di un paese come il nostro di saper accettare fino in fondo la ricchezza della diversità culturale e antropologica. I corpi e i volti dei quattro protagonisti sono e rimarranno sempre quelli di persone che “non contano”, in attesa di uno status che forse non arriverà mai e che pesa come un macigno sulla coscienza di un popolo (il nostro) incapace di rileggere la sua stessa storia alla luce di quella degli altri.
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