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La doppia anima di Ifigenia

di Paolo Patrizi
  Iphigenie auf Tauris
Data di pubblicazione su web 31/08/2009  

Se è vero, come diceva Pasolini, che la traduzione più bella è la più infedele, allora ci sono ottimi motivi per preferire questa Iphigenie auf Tauris rielaborata da Richard Strauss all’originale Iphigénie en Tauride, composta nell’idioma di Racine dal tedeschissimo Christoph Willibald Gluck, che trovò in terra di Francia la sua seconda patria e la sua seconda lingua. L’aspetto paradossale della vicenda, semmai, è che a tale aureo tradimento Strauss mise mano con l’intenzione opposta: realizzare una traduzione tedesca del libretto di Guillard più fedele di quella già da tempo disponibile (ne era stato autore Johann Baptist von Alxinger) e tale da mantenere il metro dell’originale. Né il ventiseienne Strauss di allora – già con grandi successi sinfonici alle spalle, ma ancora pressoché vergine in ambito operistico – pensò minimamente a una creazione teatrale propria: la revisione dell’Iphigénie reca come sottotitolo «Für die deutsche Bühne bearbeitet von Richard Strauss», quasi a voler sancire, sottolineando la natura di mero adattamento per le scene tedesche, la sua rinuncia a qualunque patente di “autorialità”. Accade, tuttavia, che le intenzioni iniziali sfuggono di mano ai grandi autori assai più che non alle personalità di minor spicco. Così, al di là della restaurazione librettistica, Iphigenie auf Tauris presenta i crismi di un capolavoro autonomo, o meglio – nella speranza, così dicendo, di non scandalizzare i gluckiani – della trasformazione di un lavoro interessante in un capolavoro autentico.

La mitologia greca, d’altronde, avrebbe poi rappresentato per Strauss la maggior fonte d’ispirazione del suo teatro (vi attingerà per quattro titoli del proprio catalogo operistico): si può anzi dire, col senno di poi, che grazie a questa rielaborazione intorno a un personaggio come Ifigenia, figlia di Agamennone, il compositore preparò la semina per quel raccolto il cui frutto più prezioso sarà Elektra, ossia un’opera incentrata su un’altra delle figlie del re di Micene. Il risultato fu un lavoro di sintesi drammaturgica (i quattro atti ridotti a tre, i momenti d’indole cerimoniale-esornativa tutti potati…), inversamente proporzionale a quello di dilatazione della scrittura orchestrale, e in cui l’agglutinamento delle consonanti, proprio della lingua tedesca, si sostituiva alla “melodiosità declamata” del testo francese, trasmettendo all’eloquio dei personaggi un senso di faticosità speculare alla fatica di vivere della protagonista, di Oreste e di Pilade. Dunque, sottraendo Gluck alla dimensione marmorea della tragédie-lyrique e proiettando la sua eroina verso più devastanti inquietudini, Strauss andò ben oltre una rinnovata fruibilità dell’Iphigénie per il pubblico tedesco, che d’altronde, dopo l’Iphigenie auf Tauris di Goethe, aveva questo soggetto nel proprio lessico familiare. Piuttosto, l’ancorò alla nascente sensibilità novecentesca: così come Wagner – riscrivendo a suo tempo il finale dell’altra Ifigenia, quella «in Aulide» – l’aveva rapportata alla sensibilità romantica.


Iphigenie auf Tauris

Interessantissima in se stessa, quest’operazione di recupero (la “versione Strauss” è una novità per il pubblico italiano) va però inquadrata in un progetto più ampio del Festival della Valle d’Itria: da un lato perché un paio d’anni fa venne programmato l’Idomeneo mozartiano riorchestrato da Strauss, e dunque questa Iphigenie auf Tauris diventa ulteriore tassello d’una sorta di piccolo filone; dall’altro perché pochi giorni prima, sempre a Martina Franca, si era potuto vedere l’Orfeo ed Euridice revisionato da Johann Christian Bach. Come dire: lì un Gluck “barocchizzato”, che sembra guardare indietro, qui un Gluck proiettato in avanti. A tale postdatazione si è ben adeguata la regia di Oliver Kloeter, che scegliendo la via d’una messinscena in abiti moderni propone, a ben vedere, lo stesso percorso compiuto da Strauss: portare Gluck alla sensibilità dello spettatore, anziché viceversa. E quanti nell’intervallo stigmatizzavano l’ambientazione contemporanea, rimpiangendo l’allestimento scaligero di Visconti con Ifigenia / Callas uscita da un quadro del Tiepolo, cadono in contraddizione: la prospettiva viscontiana – un’Iphigénie di figuratività settecentesca – era la stessa di questo spettacolo, con la sola, fondamentale differenza che lì si dava l’opera senza innesti straussiani. Dunque, nell’edizione Callas-Visconti, un mito greco rivisto con gli occhi del Settecento gluckiano; qui un Gluck rivisto con gli occhi di Strauss, e dunque modernizzabile senza forzature.

L’allestimento di Kloeter, nella sua semplicità, è d’altronde ricchissimo di sollecitazioni visive, a cominciare da un palcoscenico letteralmente diviso in due – marmo a sinistra, un muro sbrecciato a destra – che sembra rispecchiare la doppia anima (Gluck e Strauss, neoclassicismo e Novecento) di questo lavoro. L’altra grande dicotomia drammaturgica dell’opera – scene di massa versus momenti di totale interiorità – viene risolta spostando l’azione dal palco a una passerella che, oltrepassando l’orchestra, conferisce ai personaggi degli ideali primi piani. E la dimensione onirica – nelle luci, nella recitazione, nella molteplicità di significato che assumono un’ombra o una scrostatura d’intonaco – aleggia fortissima, quasi a volerci ricordare la contemporaneità tra Iphigenie auf Tauris (cui Strauss attese nel 1890, ma che approdò sulle scene solo dieci anni dopo) e l’Interpretazione dei sogni di Freud.


Iphigenie auf Tauris

Bellezza autentica ma non vistosa, interprete concentratissima, Olga Kotlyarova è una protagonista ideale per questo spettacolo. Voce drammatica quanto ad accento e fraseggio, ma lirica per impasto, sfoggia comunque una ricchezza di suono e colori che le consente di superare senza affanni né monotonia un ruolo che la vede quasi sempre in scena. Ancor più sostanziosa, anche se meno omogenea, è la vocalità di Alessandra Gioia, che s’impone nella breve ma fondamentale apparizione di Diana (e, per una sostituzione dell’ultimo momento, pure in quella di una delle due sacerdotesse). Meno probanti gli interpreti maschili. Nominalmente entrambi basse elevé, ossia baritono, Oreste e Toante sono, di fatto, ruoli acconci l’uno a un baritono acuto, l’altro a un basse-barytone: affidarli a Liu Song-Hu (fremente ed espressivo, ma il dubbio che si tratti d’un tenore trasformatosi in baritono a prezzo di molte artificiosità resta fortissimo) e a Costantino Finucci (voce calda ma pallida) dà luogo a un certo livellamento timbrico. A riequilibrare il baricentro delle vocalità virili, veleggiando su una tessitura a tratti acutissima, dovrebbe provvedere il personaggio di Pilade: ma gli acuti spesso schiacciati del tenore Marcello Nardis, peraltro corretto, non rendono giustizia al quadro.

Ramòn Tébar dirige con l’eleganza che si addice a Gluck e l’estroversione fonica propria di Strauss (molto efficace la mobilità drammatica impressa ai recitativi), anche se si avverte come all’Orchestra Internazionale d’Italia – un buon ensemble, ma non certo capace di sonorità stratosferiche – un’Iphigénie classicamente settecentesca sarebbe più congeniale. Chi appare invece ben compenetrato in quest’Ifigenia restaurata è il Coro Slovacco di Bratislava: sonoro, incisivo e del tutto a suo agio nel canto tedesco.

 

Iphigenie auf Tauris



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