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Ricordo (non agiografico) di Fernanda Pivano

di Roberto Fedi
  Ezra Pound, Allen Ginsberg, Fernanda Pivano; Portofino 23-09-1967. Foto di Ettore Sottsass
Data di pubblicazione su web 31/08/2009  

Andarsene a Milano il 18 agosto, nell’estate più torrida da quando si ha memoria e quando anche le foglie degli alberi cadono come in autunno per consunzione, non è il massimo per essere ricordati. E invece Fernanda Pivano ha avuto, e ce ne rallegriamo, il rispetto e il cordoglio di quasi tutti: non c’è giornale che non ne abbia parlato, non c’è radio, non c’è (anche) imbonitore più o meno massmediologico che non le abbia dedicato un sospiro. Aveva 92 anni, essendo nata a Genova nel 1917, e certo da almeno sessanta era presente – qualche volta anche troppo. Insomma, era una intellettuale che negli ultimi tempi si stava metamorfizzando in un benevolo guru di provincia, con una piccola corte di modesti ma petulanti amici di quelli che si autodefiniscono ‘artisti’. Jovanotti, che lei paragonò a Kerouac per un suo libretto di viaggi (secondo noi non fu un gran complimento, essendo Kerouac ormai illeggibile e uno dei più noiosi ma sopravvalutati scrittori del secondo Novecento), Dori Ghezzi, già moglie di De André (a cui riservò una nota definizione: non è lui il Bob Dylan italiano, è Dylan il De André americano – evitiamo di commentare per pura pietas, ovviamente), e qualche altro. Ma sono peccati veniali, probabilmente commessi per generosità.

Eppure aveva cominciato bene, a Torino dove si era laureata in Letteratura Americana (Melville) e poi in Filosofia (Abbagnano), e dove aveva frequentato amici come Primo Levi e amici-maestri come Pavese, che la spinse a tradurre sia l’Antologia di Spoon River (uno di quei libri che si possono rileggere mille volte e alla fine non ci si decide mai a concludere se è un capolavoro degno dell’Odissea o la versione jankee del libro Cuore) sia Addio alle armi di Hemingway: che lei ebbe modo di conoscere personalmente al ristorante, in una scena che poi ha riraccontato per tutta la vita. Ebbe il modo, e l’onore, di scoprire per l’Italia prima i poeti della Beat Generation, poi gli scrittori che lei stessa definì ‘minimalisti’, e a cui eresse praticamente un monumento ahimè fragile quanto i loro raccontini – Carver a parte, si capisce. Piena di vita, di sicuro non si accorse che On the road del suddetto Kerouac era un libro illeggibile, noioso, lungo, ripetitivo, e in fin dei conti una pietra tombale della generazione dell’autostop coast-to-coast (insomma gli hitch-hikers). Era l’occhio europeo, o almeno italiano, su un’America che esisteva ma che piaceva soprattutto ai pensatori nostrali, quella delle generazioni perdute, degli Allen Ginsberg, dei Ferlinghetti, dei Gregory Corso: oggi invecchiati così rapidamente da essere, davvero, chiusi a doppia mandata nel vecchio secolo.

Come tutte le persone che si esponevano in proprio, prestava il fianco a imbarazzi. Non era amata dalla critica accademica, ci pare, e questo ce la rendeva simpatica. Come traduttrice non siamo in grado di valutarla, anche se abbiamo passato ore sulle sue pagine – qualche volta, confessiamo, con qualche dubbio. Aveva vinto troppi premi, probabilmente una debolezza; e si era impegnata in esperienze un po’ facili, come le canzoni e il rap di Jovanotti.

Le rendiamo omaggio: al di là dei meriti, morire a Milano il caldissimo 18 agosto ed essere ricordata da tutti, nell’Italia di oggi, per un intellettuale è quasi un miracolo.

 

 



 
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