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Un Orfeo (finalmente) con Euridice

di Giovanni Fornaro
  Orfeo ed Euridice
Data di pubblicazione su web 21/07/2009  

“Che farò senza Euridice?”, piange il protagonista nel terzo atto dell’opera che ha inaugurato il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca 2009, Orfeo ed Euridice, appunto. Un’aria tra le più famose del repertorio ma che a Martina, questo anno, è un falso. Euridice, infatti, torna a nuova vita una seconda volta, contrariamente a quanto prevede il mito e, soprattutto, a quanto predisposto dal compositore tedesco Christoph Willibald Gluck e dal librettista Ranieri de’ Calzabigi nella prima versione dell’opera (Vienna, 1762), a sua volta già rappresentata al Valle d’Itria in occasione della prima edizione del festival, 35 anni fa.

Questo adattamento, qui presentato in prima moderna assoluta e nel 1774 allestito per il teatro partenopeo San Carlo, è la quintessenza di un pastiche perché utilizza, oltre alle originali, anche arie di Johann Christian Bach e del compositore boemo Josev Mysliveček nonché, in misura più ridotta, di Pasquale Anfossi, Johann Adolf Hasse, Georg Friedrich Händel e, probabilmente, di Egidio Lasnel, allievo di Perez: un guazzabuglio che, miracolosamente, “tiene” bene all’ascolto, non mostrando particolari difformità stilistiche. Si capisce bene, invece, come nel Settecento si tendesse a considerare la musica “contemporanea” come un materiale sonoro funzionale al gusto e alle necessità drammaturgiche (e socio-politiche) contingenti, liberamente utilizzabile e adattabile, privo di eccessiva sacralità. Gluck, ad esempio, adattò ulteriormente la partitura per una versione parmense (1769) – dove sostituì il ruolo di contraltista per Orfeo con quello di sopranista, al tempo un castrato – e non ebbe nulla da ridire per la successiva e più estesa versione napoletana.




Tutto ciò è interessante per gli addetti ai lavori, musicologi e critici musicali. Ma quello che importa, in definitiva, è la resa drammaturgica e musicale dell’opera messa in scena a Martina Franca. In questa prospettiva, non si è trattato di un semplice successo, ma di una delle più riuscite e interessanti proposte degli ultimi anni, che per il Valle d’Itria non erano stati gravidi di importanti novità (a parte la riscoperta di fondamentali repertori pugliesi del ‘700). Una operazione che coniuga il rigore filologico (revisione critica della partitura a cura di Ivano Caiazza) con il desiderio di rivitalizzare e attualizzare il mito.

Dal punto di vista storiografico, si avverte come questo Orfeo ed Euridice si collochi già al di là dell’opera tardo-barocca, aderendo alle idee riformiste di Gluck e di Calzabigi – sfrondare di formalismi e inutili orpelli vocali le arie “all’italiana”, rigettando la struttura chiusa (aria tripartita con “da capo” e recitativo secco) – secondo una rigida visione razionalista,  ma non è ancora pervenuta alle sue estreme conseguenze, come avverrà in Alceste. In questa versione tutto è attenuato dal gusto partenopeo al quale era necessario in parte adeguare la partitura, anche con le aggiunte di cui si è detto.

Gestito con attenzione dal direttore Aldo Salvagno alla testa di una sempre adeguata Orchestra Internazionale d’Italia, l’equilibrio musicale dell’opera si rivela su un ambitus tonale alto: esemplificativa, in tal senso, è la commossa e delicata pietas espressa dal coro delle Ninfe (“Ah se intorno a quest’urna funesta”), resa per l’appunto più intensa e partecipata dal registro, che prosegue col successivo duetto tra Amore e Orfeo, interpretati rispettivamente da un sopranista (il volenteroso ma ineguale Angelo Bonazzoli) e da un contraltista (il più preciso e “in parte” Franηois Razek Bitar).

Impossibile fare paragoni con la voce di Giusto Ferdinando Tenducci, cantante castrato e ispiratore, come si è già riferito, della versione napoletana, visti i diversi timbri, colori ed estensione vocale degli evirati cantori settecenteschi (ma dell’ultimo, Alessandro Moreschi, è possibile – anche su YouTube – ascoltare le registrazioni, effettuate fino al 1922 su rulli di cera).


Molto interessante è la lettura di Orfeo ed Euridice fornita dal giovane regista e costumista Toni Cafiero. Senza pervenire al più estremo “teatro di regia”, e grazie anche a una maggiore articolazione delle parti (aggiunte in questa versione), Cafiero traspone la vicenda in una strana e indefinita contemporaneità (anche con i costumi, novecenteschi) e bilancia il tema tragico della morte di Euridice, memore della lezione del suo maestro Jerome Savary, trasformando in farsa la prima parte del II atto, quando l’Ade, abitato dai prescritti Poseidone e Proserpina – in costumi leopardati – diventa un sordido night-club, con “veline” giovanissime dall’atteggiamento “felino”, nonché immancabile cubista sado-maso.

Eppure Orfeo ben si adatta al mutato clima, fin quando un orso al guinzaglio non lo benda perché sta per giungere Euridice, da accompagnare verso la vita e la libertà ma da non guardare, pena l’ira di Giove e la morte definitiva (poi disattesa).

Per lo scenografo Eric Soyer, sia l’Ade che i successivi Campi Elisi sono identificati, più che da effettivi cambi scenografici – sempre molto difficili nel Palazzo Ducale di Martina Franca, dove non esiste sipario – da scritte gigantesche in plastica, poste direttamente sulla scena, con le quali i cantanti interagiscono utilizzandole per nascondervisi o per riposare.

Per il resto, una anonima e grigia struttura a due pedane che si ricongiungono davanti al pubblico diviene, di volta in volta, giardino o regno dei morti grazie ad un uso sapiente, vorrei dire grafico, delle luci, con strutture mobili dalle quali, ad esempio, esseri apparentemente difformi emergono in tutta la loro drammatica sofferenza infernale, grazie anche all’utilizzazione di teli elastici colorati che trasformano tratti e corpi, un po’ seguendo la lezione teatrale di compagnie come i Momix.

Bella la scelta dei balletti, in cui la danza contemporanea è utilizzata per mostrare tutta la furia selvaggia delle Erinni su Orfeo, sebbene senza esito perché è la soave musica del protagonista a fungere da deus ex machina dell’opera, risolvendo sempre le situazioni – soprattutto le “ultime” – a vantaggio dei due innamorati.

Rimane da riferire sul cast vocale: il livello mi è sembrato più che soddisfacente, con alcune perle: prima fra tutte il soprano Daniela Diomede nel ruolo del titolo, esemplare e a suo agio nelle situazioni più complesse musicalmente, perfetta anche dal punto di vista della capacità recitativa. Oltre ai due ruoli maschili principali, di cui si è già detto, hanno saputo interpretare credibilmente il difficile ruolo assegnato dal regista Vincenzo Maria Sarinelli (Plutone), Mizuki Date (Proserpina), nonché Natalizia Carone nel doppio ruolo di Euristo e Erinni e Ernesto Petti in quello di Eagro. Coro (d’ordinanza, ma sempre d’effetto) Slovacco di Bratislava guidato dall’ormai mitico Pavol Prochazka.




Orfeo ed Euridice



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