Che il verismo, in musica, non sia solo un fenomeno italiano dovrebbe essere un dato acquisito per ogni melomane. È però difficile che lappassionato medio, interpellato sullargomento, vada al di là della triade Mascagni / Leoncavallo / Giordano: i più informati, semmai, tireranno in ballo anche Resurrezione di Alfano e Nozze istriane di Smareglia. Ciò non toglie, però, che tra il 1900 e il 1904 videro la luce tre capisaldi del teatro musicale verista francese, tedesco e mitteleuropeo: Louise di Charpentier, Tiefland di dAlbert e Jenufa di Janáĉek; e se Louise resterà in Francia un oggetto isolato (laltro filone verista doltralpe in quegli anni, ovvero i libretti di Zola per Alfred Bruneau, approderà a risultati dinteresse minimo), Tiefland e Jenufa presentano similarità drammaturgiche e analogie psicologiche su cui sarebbe interessante indagare, a cominciare dal tema della donna ferita al volto dalluomo geloso e che solo dopo lo sfregio riuscirà a innamorarsi (in dAlbert) o ad essere veramente amata (in Janáĉek). Sensi di colpa e fremiti masochisti, insomma, pulsano in questo “altro” verismo assai più che in quello nostrano, e anche quando il tema è – mascagnanamente – quello della donna disonorata, Janáĉek lo tratta con esiti ben più estremi: Santuzza fa le sue geremiadi con «Priva dellonor mio rimango», la matrigna di Jenufa sopprime fisicamente il neonato “figlio della colpa”.
A un attento indagatore dellanimo femminile come Janáĉek (e in Jenufa lindagine è al cubo, portando in scena tre donne appartenenti ad altrettante generazioni, legate tra loro da rancori atavici e ancestrali connivenze) giova una mano registica muliebre: anzi, nel nuovo allestimento proposto a Monaco le donne – pure in questo caso – erano tre, alla regista Barbara Frey aggiungendosi la scenografa Bettina Meyer e la costumista Bettina Walter. Insieme realizzano uno spettacolo di grande coerenza figurativa, che nulla concede al bello (si potrebbe quasi parlare di unantiesteticità programmatica) e fotografa con oggettività non priva di pietas il microcosmo superstizioso e bigotto, degradato eppure – a suo modo – formalista narrato da Janáĉek e dal dramma di Gabriela Preissova che è alla radice. Sotto questo profilo lambientazione contemporanea voluta dalla Frey non è una forzatura: anzi finisce per sembrare lunica possibile quando, con felice senso del teatro, fa riassumere la limitatezza di quel mondo dalla presenza muta di un televisore, unico oggetto darredamento assieme a un crocifisso. A parte questi due simboli leggibilissimi limpaginazione dello spettacolo è, invece, spiccatamente naturalistica (in controtendenza con le regie ad alto tasso metaforico che si sono viste nelle varie Jenufe proposte in questi anni), fluidamente narrativa, attenta alla ritrattistica dogni personaggio: le esperienze cecoviane della regista sono palpabili, e danno buoni frutti.
Il lavoro sulla recitazione dei cantanti – capillare – ha esiti talvolta formidabili, come nel caso del personaggio della sagrestana, la cui evoluzione da gelida beghina a omicida indemoniata viene descritta, nel secondo atto, passando da unimmobilità assoluta a unincontrollata frenesia motoria. Naturalmente, per farlo, la Frey ha potuto contare su cantanti-attori di gran classe, a cominciare da Deborah Polaski: sagrestana lontana dallasse Olivero / Kabaivanska (che, con le loro voci magre, risolvevano il ruolo nello scavo del canto di conversazione) e fedele, per contro, a una visione che vuole la drammaticità del personaggio veicolata dal suono non meno che dallaccento. Che è poi, nel caso della Polaski, il suono di un autentico soprano drammatico di ceppo wagneriano, ancorché non più freschissimo. Chi, per questa figura femminile tra le più inquietanti del Novecento, è abituato a gloriose veterane intente ad autocompiaciuti cammei potrà restare perplesso: alla parte la Polaski offre invece tutta la propria robustezza vocale, risolvendo sempre nel puro canto – senza artifizi da fine dicitrice – la densità fonica imposta da Janáĉek.
Cammeo da vecchia gloria, comè giusto che sia, è invece quello di Helga Dernesch (classe 1939) nei panni della nonna. Attrice strepitosa (che sfoggia con civetteria un aspetto più anziano delle sue settanta primavere anagrafiche), ormai più declamatrice che cantante, oggi come in gioventù la Dernesch prosegue con coerenza la propria parabola di “voce costruita”: un soprano puramente lirico che, negli anni Settanta, volle improvvisarsi Brunilde per Karajan e, ora, un “non soprano” (impossibile etichettare il suo registro vocale, per ciò che ne resta) caparbiamente avvinghiato al suo diritto a non scomparire dalle tavole del palcoscenico. Vederla resta una lezione di teatro. Ma anche se le generazioni più anziane (la sagrestana nuora-matrigna e la decrepita suocera-nonna) offrono un più immediato impatto, resta fermo che il nucleo poetico di Jenufa si coagula attorno alla protagonista eponima: e la vocalità di Eva-Maria Westbroek – strumento da soprano lirico spinto, accompagnato però da un timbro inusualmente chiaro, addirittura trasparente – configura alla perfezione tanto la purezza umiliata quanto la passionalità trattenuta del personaggio.
Accanto a tre generazioni femminili, ununica generazione di protagonisti maschili: Pavel Cernoch e Stefan Margita sono tenori essenzialmente affini per timbro, ma con percettibili differenze quanto a emissione, dunque ideali per ritrarre similarità e incompatibilità tra due fratellastri. Il primo sfoggia unapertura di suoni gradevole e seduttiva, di primo acchito, che però sulla distanza trasmette una sensazione di slabbramento e sostanziale volgarità: una raffigurazione canora perfetta per il fatuo Števa. Il secondo ha invece una vocalità molto meno espansa, anzi a tratti addirittura compressa, che a sua volta rispecchia molto bene la più introversa natura di Laca.
Curatissimi da Janáĉek, i personaggi minori sono stati a loro volta pennellati ad arte, in virtù del lavoro della regista e dellintrinseca bravura degli interpreti: Christopher Stephinger ritrae con maestria la boria naïf del sindaco, Heike Grötzinger la spocchia da campagnola arricchita di sua moglie, Elena Tsallagova la capricciosità isterica di Karolka, Tara Erraught la bonomia conciliante della fantesca Barena. Christian Rieger imprime una taglia da baritono di primo piano alla breve apparizione del mugnaio. Laura Nicorescu è efficace come pastorello en travesti. Tutti avrebbero meritato una direzione più efficiente di Kirill Petrenko: molto compiaciuto – si direbbe osservandolo sul podio – della propria gestualità frenetica e amplificata che, a fronte di tanto agitarsi, approda a poco in termini di coesione e bellezza sonora. Ma lorchestra della Bayerische Staatsoper è di tale livello da garantire esiti rassicuranti al di là della bacchetta.
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