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Ultime luci

di Paolo Patrizi
  Lucrezia Borgia
Data di pubblicazione su web 15/07/2009  

In occasione della scomparsa del soprano Edita Gruberova, riproponiamo questa recensione di Paolo Patrizi alla Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti andata in scena il 6 luglio 2009 alla Bayerische Staatsoper di Monaco, una delle ultime esibizioni importanti che segnarono la carriera della grande cantante.


Ora che pure per lei si fa sera sarebbe auspicabile, prima del definitivo ritiro, che qualcuno tentasse una ricognizione oggettiva dell’arte di Edita Gruberova: prendendo le distanze sia dalle inclinazioni agiografiche che nutre per lei il pubblico mitteleuropeo sia dalle idiosincrasie – talvolta un po’ isteriche – di quei melomani italici che, per difendere a spada tratta altre primedonne dal repertorio analogo, del soprano slovacco hanno voluto sottolineare certe caratteristiche discutibili più che l’innegabile talento. Ma soprattutto sarebbe il caso di ricordare come, al contrario di altre regine del belcanto, la Gruberova abbia saputo rinnovarsi sul piano espressivo, trasformando – a misura che «la voce della cantatrice non era più quella» – i manierismi dei primi decenni di carriera in una propria personalissima “maniera”. Sicché l’antico dualismo tra belcanto come purezza della simmetria (ergo Mariella Devia) e belcanto come estrosità dell’arzigogolo vocale (ergo, appunto, Gruberova) da tempo non ha più ragion d’essere: se l’italiana si è mantenuta fedele a se stessa, e tuttora replica con la voce di oggi la sua cifra di sempre, la “Grubi” ha trovato nel declino la molla del proprio rinnovamento, approdando a una drammaticità sui generis, artificiosa quanto si vuole eppure sincera e, comunque, catturante.                                    

Una scena dello spettacolo

Certo, dopo oltre un quarantennio di carriera ogni anno che passa pesa il doppio: l’estate scorsa, sempre a Monaco, nel Roberto Devereux l’impressione era di una voce con sparsi momenti di stanchezza; oggi è quella di una voce affaticata tout court, oltre che alquanto disomogenea. Al di là d’un più palpabile declino, resta però la sensazione che il rapporto Gruberova / Lucrezia Borgia non abbia trovato la carica simbiotica che caratterizza il rapporto Gruberova / Elisabetta I; e se la cosa può apparire naturale (il Devereux l’ha in repertorio da anni, alla Borgia si è accostata solo di recente), a monte d’una meno felice definizione del personaggio c’è forse anche la minore intesa con il regista. Qui come nel Devereux – spettacolo che a Monaco si riprende ormai da un lustro – a firmare l’allestimento è Christof Loy: ma se lì la Gruberova sembrava sposare in pieno, immedesimandosi alla perfezione, il lavoro della regia (uno spettacolo violento, misogino e con echi del teatro della crudeltà) qui resta più bloccata da una messinscena che torna a giocare con il “moderno” e il “provocatorio”, ma girando a vuoto.   

Stando così le cose, ascoltiamo – almeno nella recita di cui si dà conto – una Gruberova piuttosto circospetta nel prologo, quasi stesse ancora prendendo le misure del personaggio, e che arriva affaticata nell’ultimo atto. Il blocco centrale è di gran lunga il migliore: come se l’interprete –all’opposto di quanto accade ascoltando la Devia – si trovasse più a suo agio a trattare Lucrezia nella sua veste ufficiale di Borgia, anziché nei panni incogniti di madre amorosa. Per il resto, si ascoltano acuti ancora ricchissimi di suono e fiati talvolta arbitrari (dunque tali da disarticolare un po’ la coerenza del fraseggio) ma, talaltra, prodigiosamente lunghi (lo smarrito «Ah!» del prologo, tenuto per tutto il tempo della ripresa del tema di «Maffio Orsini, signora, son io»). L’ottava inferiore, invece, presenta sonorità ormai patentemente stimbrate. Da mattatrice di gran razza la Gruberova s’ingegna di trasformarle in congegno espressivo, così come certi attacchi ansimanti amplificavano la carica teatrale del suo Devereux: ma qui il gioco riesce meno e i suoni vuoti restano vuoti, senza plusvalori in termini di drammaturgia canora. Rimane, indiscutibile, il carisma; e la consapevolezza che, quando la Gruberova abbandonerà le scene, perderemo una delle primedonne più appaganti e imprevedibili degli ultimi decenni.

Una scena dello spettacolo  

Della regia di Loy resta poco da aggiungere: le “trovate”, ammesso che possano definirsi tali (Gennaro e i cinque amici vestiti come teppisti di buona famiglia in libera uscita da un college, il duca Alfonso trasformato nella parodia del cattivo da melodramma, Rustighello segretario sciocco e occhialuto nonché servilissimo sciuscià), non approdano ad alcun percepibile disegno drammaturgico. Semmai deprime notare come per un melodramma ambientato nel Rinascimento italiano – sia pure con il filtro victorhughiano del romanticismo francese – i riferimenti del regista sembrino attingere alla nostra peggiore televisione (le pagliacciate imposte alla coppia Alfonso / Rustighello) e ai B-Movies americani (la gang di Gennaro & C., che da sestetto lievita a squadrone poiché Loy gli affianca il coro). Ne fa le spese, tra gli interpreti, soprattutto Franco Vassallo: non è facile cantare un Alfonso d’Este credibile quando si è costretti alle gag più grottesche e a una delirante frenesia motoria. Fortuna per il baritono italiano che la sua voce è così robusta da mantenere solidità pure nei momenti di maggior dissociazione tra il dettato donizettiano e l’arzigogolo scenico di Loy. Il problema, semmai, è che appunto di baritono si tratta: e sebbene esista una tradizione – circoscritta ma non trascurabile – che vede Alfonso in chiave baritonale, resta fermo che il ruolo è da basso cantante: certi affondi gravi, dunque, risultano in Vassallo artificiosi, laddove le espansioni acute (compresa una felice puntatura al termine della cabaletta) sono assai più appaganti. Il fraseggio, poi, non è certo sfumato, mirando a un personaggio più brutale che gelido: ma è arduo giudicare le reali intenzioni di un cantante quando la regia è così invasiva.

Pavol Breslik – chioma bionda e sguardo torbido – ha la fisicità giusta per trasformare il capitano di ventura concepito da Hugo e Donizetti nel teddy-boy bello e dannato voluto dal regista: per fortuna di giusto ha anche la voce, bellissima, oltre che sorretta da un’emissione facile e spontanea. Piuttosto fioca la prova di Alice Coote, Maffio Orsini un po’ deficitario negli affondi contraltili e più cauto che spavaldo nella coloratura del brindisi. Di valore variabile le parti di fianco, ma vanno sottolineati almeno il solido professionismo di Steven Humes (Gubetta) e la capacità mostrata da Emanuele D’Aguanno di tramutare Rustighello in un vero personaggio, al di là (o nonostante) i suggerimenti del regista. Piuttosto uniforme – per volumi e dinamiche – la direzione di Bertrand de Billy, onesto accompagnatore della primadonna ma interprete troppo poco fantasioso per una partitura ricchissima nelle sue tinte notturne.




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