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Ulisse senza patria e drammaturgia

di Gianni Cicali
  Odissea
Data di pubblicazione su web 20/01/2003  
Chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo sono domande che, a torto o a ragione, ci siamo posti fin da quando tracciavamo graffiti nelle caverne. Oggi graffitiamo i muri, con risultati quasi sempre peggiori e ci auguriamo meno duraturi, ma quelle domande per alcuni sono ancora attuali. Paiono sfumate, invece, per molti registi, scenografi o uomini e donne di teatro in generale. È il caso dell'Odissea del Teatro del Carretto andata in scena in prima nazionale al teatro del Giglio di Lucca (splendido edificio neoclassico) che l'ha prodotta, il 10 gennaio 2003.

Il teatro del Carretto ha al suo attivo numerose produzioni, di cui troviamo superlativa la oramai 'antica' e celebre Biancaneve: una scatola magica, o delle meraviglie, un marchingegno semplice e raffinato, evocativo e suggestivo. Già confrontatosi con l'Iliade, il teatro del Carretto (e le sue due anime Maria Grazia Cipriani e Graziano Gregori) prosegue la sua ricerca con l'Odissea. E mal gliene incoglie.

La scena è unica: una piattaforma circolare di legno che di volta in volta, secondo gli stilemi scenografici di Gregori, svela botole, si apre e trasforma (non molto in verità), diventa simbolicamente la nave di Ulisse grazie al movimento avanti e indietro degli attori che imita quello dei marinai (fa pensare un po' al primo atto dell' Otello di Nekrosius). Ma siamo lontani dalla boîtes a machine con la regina cattiva. Inoltre, le luci (Ugo Benedetti) sono in generale anodine.Tuttavia lo spettacolo ha il suo punto debole nella mancanza di una salda drammaturgia e di una efficace conduzione degli attori. L'idea-adattamento avrebbe potuto anche essere buona e non lontanissima dalle intenzioni omeriche: far raccontare a Ulisse i suoi viaggi e le sue avventure. Omero, o chi per lui, fece far questo a Odisseo ospite dopo il naufragio alla corte dei Feaci.

La Cipriani sceglie di iniziare l'azione nella reggia di Itaca, invasa dai Proci, nel momento in cui l'eroe della guerra di Troia fa ritorno travestito da mendicante. Per un attimo si poteva sperare in un personaggio molto attualizzato che, come un reduce del Vietnam (modello Tornando a casa), riviveva nel delirio episodi cruenti della guerra iliaca e dei suoi viaggi. Ma non è andata così. Stona subito, a inizio spettacolo, l'atmosfera blandamente orgiastica della mensa dei Proci. L'ilarità ebbra e la promiscuità con le ancelle traditrici di Penelope (in realtà una sola che, poverina, aveva un bel da fare) sono rese con toni un po' troppo sforzati e con movimenti pelvici che turbano per l'inefficacia e l'assenza di vero erotismo. In certi momenti pare di essere di fronte a dei giovani attori impegnati a scandalizzare un pubblico di famigliole.

Iniziano i racconti di Ulisse. I Proci, all'occasione, si trasformano nei compagni di viaggio, nelle anime degli Inferi, nel gregge del Ciclope (con imbarazzanti belati), in porci/sirene en travesti - in un appena suggestivo entr'acte cabarettistico con Circe modello Rocky Horror Show -, nelle mucche del Sole ecc., spesso indossando maschere raffiguranti animali (un po' Picasso, un po' Cocteau, che a Picasso s'ispirava) - da dire che le anime dei morti con i lumini da cimitero in mano ci è sembrata un'idea poco felice. Non si capisce se la Cipriani voglia darci una sua lettura dell'Odissea, di cui non sentivamo l'urgenza, oppure questi racconti-quadretti, giustapposti senza un solido e palese criterio, siano solo pretesto a invenzioni visive, prive però della forza necessaria.

A momenti ci si chiede cosa stiamo ascoltando e vedendo. Non ci sembra infatti che si tratti della lettura di brani scelti fatta 'dal grande attore' in forma scenica: il grande attore non è dato, ci perdoni il pur bravo Teodoro Giuliani. Se flusso di coscienza e di ricordi di un Ulisse reduce doveva trattarsi non ce ne siamo accorti. Che senso ha, allora, prendere l'Odissea, frullarla un po' e proporla in questa veste? Continuiamo a non saperlo. Con Biancaneve si può giocare e vincere, con l'Odissea è forse più difficile. I napoletani nel Settecento traducevano e parodiavano i poemi omerici, ma erano altri contesti: coltissimi e dialettali e legati a precise diatribe politico-sociali. I movimenti degli attori, dentro, intorno e sopra la piattaforma circolare, invece di sostenere una vera idea drammaturgica sembrano cercare l'effetto 'raffaellosanziano', con ricordi dei Magazzini Criminali (gli 'atletismi' di Rolando Mugnai con le funi sono di venti anni fa). Insomma si fa del circo o del teatro? Decidiamoci, nel rispetto di due grandi tradizioni: le contaminazioni sono difficili e vanno affidate ad atleti-attori in grado di farle degnamente.

Un'ultima 'nota' riguardo alle musiche (Hubert Westkemper): una Callas buttata lì, clangori violenti che disturbano per il loro ingresso mal calcolato, i soliti 'flautoni-tuboni' aborigeni e via di questo passo. Un guazzabuglio anodino, come le luci, per di più modaiolo e piuttosto banale. L'iniziativa egregia del Teatro del Giglio di Lucca di coprodurre questo spettacolo non ci pare sia stata onorata a sufficienza da Cirpiani & C. che, in questa occasione, sono sembrati a corto di idee.



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