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La festa di Abbado

di Paolo Patrizi
  Il maestro in concerto
Data di pubblicazione su web 08/04/2009  

Quasi una battaglia. La cascata di fiori che, da un palco di proscenio, le madame degli Abbadiani Itineranti (il circolo creatosi dopo l’ormai remota – e oggi, pare, prossima a concludersi – diaspora milanese del grande direttore) fa piovere sul loro adorato maestro e sulla sua orchestra si trasforma in un certame carnascialesco: i ragazzi della Mahler Chamber Orchestra raccolgono i boccioli di rosa caduti sulle loro teste e se li rimpallano l’un l’altro, lanciandoli poi anche in platea. A Claudio Abbado, che osserva divertito e con gli occhi sgranati, bambino settantaseienne ancora capace di stupirsi per i miracoli della musica, ne arrivano solo un paio di spalle.

Insomma, ogni concerto di Abbado è una festa: ma stavolta la festa è stata proprio grossa. E per almeno tre ragioni. La prima è che questo concerto di Ferrara, replicato l’indomani a Reggio Emilia, sancisce un’evoluzione del rapporto tra il direttore milanese e il Fidelio. Spiace dirlo, ma il suo debutto, l’anno scorso, nell’unico lavoro operistico di Beethoven sfociò in un risultato interlocutorio e, alla resa dei conti, deludente. Influirono un cast parzialmente inadeguato e una regia antimusicale: ma l’impressione fu che tra bacchetta e partitura s’instaurasse un rapporto di non totale comprensione, basato più sulla stupefacente riuscita di certi dettagli che su una soluzione dei problemi sempre lasciati da un’opera “aperta” come Fidelio; e la rinuncia a eseguire in sottofinale la Leonore n. 3 rappresentò tanto una scelta rigorosa, e un po’ oltranzista, sul piano musicologico quanto un vuoto – se non una voragine – sul piano emotivo.

A Ferrara il concerto si è invece aperto proprio con la Leonore n. 3: quasi a voler sancire la chiusura di un discorso e forse, chissà, un ripensamento. A seguire, recitativo e aria di Leonore. E poter contare, anziché sulla corretta e un po’ annaspante professionista dell’anno scorso, su una fuoriclasse come Nina Stemme ha offerto il destro a un’assai più felice dialettica voce-orchestra, in questa pagina che è una delle più grandi Gran Scene per soprano dell’intera letteratura operistica ottocentesca.

La Mahler Chamber Orchestra
La Mahler Chamber Orchestra


Per il resto – e la Quinta Sinfonia, proposta nella seconda parte della serata, l’ha confermato – Abbado resta fedele alla musa di un Beethoven classicista e immune da suggestioni romantiche: gusto più per l’anatomizzazione della pagina che per le grandi campate narrative; tempi rapidi (e nella Leonore n. 3, a giudicare dallo stupore sul viso degli orchestrali, che comunque non hanno perso un colpo, probabilmente più veloci di quelli impressi in prova); estrema valorizzazione dell’elemento ritmico. Quel riserbo antiemotivo che in letture di Abbado più lontane del tempo rischiava di tradursi in freddezza, e quel guardare innanzi tutto alla struttura che, in passato, inibiva gli affondi “umanistici” e “filosofici” della grande tradizione beethoveniana austrotedesca, è oggi il marchio di un interprete inconfondibile. Si potrà preferire un Beethoven più romanticizzato (soprattutto nell’incipit della Quinta) e incline a scandagliare nel tormento dell’uomo: ma non si potranno negare, in questo Beethoven diacronico e atemporale (per qualche verso tardoilluminista, per altri quasi novecentesco), l’abbacinante luminosità sonora e la forza trainante che promana dalla fiducia nella materia musicale in se stessa.

Un approccio tanto personale non ha impedito, però, un rispetto dello strumento-voce che non sempre rientra nelle caratteristiche di Abbado. Dopo una Leonore n. 3 così incalzante negli stacchi, è sembrato quasi che, nell’aria di Leonore, il podio lasciasse al soprano la scelta dei tempi. La Stemme, d’altronde, non ha certo giocato al ribasso, offrendo una lettura di emotività devastante. Nonostante la sordità e la fama di compositore poco pratico di voci, Beethoven era assai sensibile alla vocalità: «Ho visto dalla sua respirazione che canta giusto, ed ho letto nel suo sguardo che sente quello che canta», disse al tenore Ludwig Cramolini (ce lo racconta il cantante stesso nelle sue Memorie) dopo che questi, andando a visitare il compositore ormai morente, aveva eseguito il Lied Adelaide. Profilo tecnico (respirazione) e profilo espressivo (“sentire” ciò che si canta) erano dunque per lui legati a filo doppio, e la Stemme ha offerto una lezione su entrambi i fronti, dominando la declamazione del recitativo e le elaborazioni vocalistiche dell’Allegro, i numerosi affondi gravi e le improvvise impennate acute con uno strumento duttile, omogeneo e perfettamente dominato.

Il cuore del concerto – veniamo alla seconda ragione della “festa” – era però racchiuso nei Quattro ultimi Lieder di Richard Strauss. E se Abbado, in Beethoven, ha offerto una lettura in qualche modo estrema, in Strauss ha colpito soprattutto per l’equilibrio con cui ha miscelato le componenti del testamento artistico e spirituale dell’autore del Rosenkavalier. Non ha dimenticato, cioè, che i Vier letze Lieder, per quanto crepuscolari, non possono prescindere – come sempre nel suo autore – da un certo spessore sonoro: una morbidezza che non si trasforma in rarefazione, una malinconia senile lontana però dal disfacimento sono dunque i segni della sua lettura, che esclude qualunque affondo decadente. Anche questa volta ha trovato un’interlocutrice ideale nella Stemme, che concepisce le quattro pagine come un unicum musicale ma non emotivo e offre angolazioni interpretative abbastanza sorprendenti: il primo Lied (Primavera), anziché dare l’impressione d’iniziale oasi di vitalità, poi sconfessata dai Lieder seguenti fino alla dissoluzione finale, dà l’idea di una seduzione mortifera, che in qualche modo già prepara la semina per il congedo dalla vita; Settembre è il più ripiegato, l’unico in cui il soprano dà l’impressione di volersi collocare in posizione sussidiaria rispetto all’orchestra (una Mahler sciabordante e liquidissima); e se Andando a dormire – il penultimo della serie – sembra dare la sensazione della resa biologica davanti al tempo irreversibilmente trascorso, sancito dall’assolo violinistico, l’ultimo (Al tramonto) qui trasmette ancora l’idea di una sotterranea ribellione davanti all’ineluttabilità della fine.

Dunque – terza festosa ragione – la serata dimostra che si può fare ottimo teatro anche in un concerto. Niente bis: ma in un programma come questo, meditato al millimetro nell’impaginazione, era arduo aggiungere un fuoriprogramma senza incrinare equilibri già perfetti. Resta il rimpianto per una presenza italiana, nella settantina di elementi che compongono la Mahler, ancora abbastanza sguarnita. Ma lo splendido primo piano che, in Beethoven, si ritaglia il flauto di Chiara Tonelli è un ottimo viatico per sperare in un futuro migliore.



Il concerto della Mahler Chamber Orchestra a Ferrara



cast cast & credits
la cantante protagonista del concerto

Nina Stemme



 
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