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A qualcuno piace freddo

di Roberto Fedi
  Kathryn Morris
Data di pubblicazione su web 06/04/2009  

Notizia ferale: Cold case, la serie che da noi va in onda su Rai Due il sabato sera (due storie per volta), e che è sottotitolata Delitti irrisolti, forse chiude. Era nata nel 2003 sull’americana CBS, e sembra che costi troppo. È un peccato, perché la serie, che col tempo è cresciuta fino all’apoteosi di quella in corso, è straordinaria.

Come sanno tutti i buoni lettori dei gialli, c’è una regola che ogni investigatore dirà almeno una volta: che se i ‘casi’ non si chiudono entro quarantotto o settantadue ore, sono destinati per forza di cose a finire nel repertorio dei cold cases, i ‘casi freddi’. A quel punto, il materiale raggruppato nelle scatole di archivio sarà aggiornato burocraticamente ogni tanto, ma quasi nessuno se ne preoccuperà più: altri delitti incombono, altri rapimenti, altre  brutalità. Gli assassini rimarranno, probabilmente, impuniti.

Quindi, il punto di partenza è sempre un mistero rimasto tale, e sepolto per sempre nell’archivio della polizia di Philadelphia (è lì che è ambientata la serie). Che è simile a un cimitero, con tante scatole bianche tutte uguali con un nome sopra, che assomigliano non a caso alle sepolture a muro.

Prodotto da Jerry Bruckheimer e interpretato da attori uno più bravo dell’altro (personalmente sono un fan di Lilly Rush, che è l’attrice Kathryn Morris: un esempio di come si interpreta senza eccessi ma intensamente una donna detective in una serie seria, se ci permettete il gioco di parole), ha una struttura ripetitiva ma efficacissima narrativamente. C’è l’antefatto: un omicidio o comunque un delitto divenuto, col passare degli anni, un cold case. Poi si comincia a indagare, con la squadra appositamente creata dalla polizia di Philadelphia per questo, e diretta da Lilly Rush. I personaggi sono accompagnati, come di solito accade in questi serial, anche nella loro vita privata, ma senza esagerare: in primo piano c’è sempre l’indagine a ritroso. Che porta in luce storie segrete, episodi dimenticati, e personaggi ormai invecchiati o divenuti adulti che rivivono fatti che avevano cercato di dimenticare.

Qui sta la chiave dei singoli episodi, e della serie: un andirivieni fra passato e presente, fra reticenze e confessioni; mentre la regia è eccellente per suspense, per capacità di scavare nei personaggi, per come in flashbacks  fulminei riesce a sovrapporre l’immagine del personaggio di oggi con quella di ieri, entrando così nelle stesse coscienze. Anche la fotografia è bellissima e funzionale, essa stessa quindi un elemento formale, e privilegia i toni notturni e i colori forti, quasi da incubo, nelle ricostruzioni a ritroso. Nella serata del 4 aprile, ad esempio, era eccezionale l’episodio intitolato Il portafortuna, storia ricostruita di due delitti di adolescenti commessi alla stessa ora, e inspiegabili.

È un esempio perfetto di una serie matura anche drammaturgicamente, in cui ogni episodio è, di fatto, un vero e proprio film: anche tecnicamente, visto che non c’è lo stacco che di solito si registra nei telefilm tra scene girate in esterni e quelli in interni, che c’è continuità narrativa, e visto il ricorso alla pluralità complessa dei punti di vista nella rilettura a posteriori del dramma. Forse anche per questo non la vedremo più (noi speriamo ancora di no), proprio per i costi altissimi di produzione.

E allora guardiamocela finché siamo in tempo. Non vorrete mica anteporle la goffa Antonella Clerici su Rai Uno con i suoi bambini che cantano come i grandi? Quella sì che è roba ormai fredda, anzi agghiacciante, da anni Cinquanta ricordati male e resuscitati peggio.

Ci vorrebbe, per quella robaccia lì, un redivivo Visconti, naturalmente quello di Bellissima (1951).







 
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