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Il punto di vista di Biancaneve

di Luigi Nepi
  Clin Eastwood
Data di pubblicazione su web 20/03/2009  

Anche se, continuando nella bulimia produttiva che lo ha contraddistinto negli ultimi anni, il prossimo film è già in fase avanzata di produzione (Invictus con Matt Damon e Morgan Freeman, sull’apartheid in Sud Africa), con Gran Torino Clint Eastwood confeziona uno stupendo film-testamento, un’opera terminale nella quale ritesse le fila della sua visione del mondo e, soprattutto, del cinema. Sebbene Hollywood non sia mai stata un "paese per vecchi", Eastwood torna (per l’ultima volta?) ad essere protagonista di un suo film, interpretando il ruolo di Walt Kowalski, un reduce della guerra di Corea, operaio in pensione della Ford, che ha sempre vissuto in maniera integerrima e intransigente secondo un severo codice di comportamento, legato a saldi quanto anacronistici valori (patria, famiglia, bandiera, territorio...), che lo hanno portato, inevitabilmente, ad avere un rapporto conflittuale con i suoi figli e con i suoi nipoti (nei quali riconosce un’ulteriore degenerazione).


Il film si apre con il funerale della moglie di Kowalski, una lenta carrellata attraversa la chiesa e, dopo aver rispettosamente indugiato sulla bara della donna, ci lascia finalmente vedere la figura inconfondibile di Clint Eastwood, più rigida e spigolosa che mai, splendidamente invecchiata, che mostra con orgoglio i suoi 78 anni, dimostrando come, invece, sia possibile invecchiare anche ad Hollywood. Bastano poche, illuminanti inquadrature perché tutto sia chiaro allo spettatore: le dinamiche interne alla famiglia Kowalski, il rapporto di Walt con la comunità, il suo stato di salute e persino la sua insofferenza verso il giovane parroco (che si scoprirà essere lievemente venata di gelosia). Niente di più classico e moderno al contempo. Anche la storia è a suo modo classica: un vecchio xenofobo, unico bianco rimasto in un quartiere periferico di Detroit (in pratica lui stesso un "giapponese"), che si vede costretto ad occuparsi di Thao, un giovane Hmong, vicino di casa che ha tentato di rubargli la sua preziosa auto d’epoca (la Ford Gran Torino del titolo). Il rapporto tra i due diventa sempre più profondo, quanto più critico diventa quello di Thao e di sua sorella Sue con le bande di delinquenti asiatici, latini e neri che imperversano nel quartiere, fino ad arrivare all’inevitabile resa dei conti finale.

Alla sua struttura classica, Gran Torino contrappone una sostanza fortemente moderna, dove tutto è evocativo, a partire ovviamente dallo stesso Eastwood, che, avendo stratificato su di sé i personaggi di oltre quarant’anni di carriera, li fa riaffiorare alla memoria dello spettatore, liberandosene progressivamente come se fossero pelli di serpente. Ecco che passano ad uno ad uno il sergente Gunny Highway, il manager Frankie Dunn di Million Dollar Baby, il capopattuglia Nick Pulovski della Recluta, ma anche Robert Kircaid dei Ponti di Madison County e il poliziotto Ben Shockley dell’Uomo nel mirino, senza dimenticare, ovviamente, l’ispettore Harry Callaghan e il cowboy "con due sole espressioni" di Sergio Leone, al quale sarà riservato il duello finale. Lo stesso nome del protagonista è significativo: Walt Kowalski, geniale ed evidente crasi che lo proietta in quella "terra di mezzo" che sta tra Disney e Kazan, tra Biancaneve e Marlon Brando. In effetti Eastwood-Kowalski è spesso circondato da persone fisicamente (o moralmente) molto più basse di lui, per cui si trova quasi sempre costretto a guardare tutti dall’alto verso il basso, finendo così per somigliare molto di più all’eroina dei fratelli Grimm, che al rozzo personaggio di Tennessee Williams.


Eastwood non ha bisogno di citazionismi da videonoleggio, per cui la Ford Gran Torino del ’72 si fa direttamente metafora di un certo tipo di cinema, nel quale lo stesso Eastwood era, come dice Kowalski, "alla catena di montaggio"; un cinema che adesso nessuno fa più, ma che lui, ostinatamente e con cura maniacale, cerca di mantenere ancora come "nuovo", in quanto unico, vero ed originale prodotto della cultura americana, un cinema che adesso risulta irrimediabilmente contaminato da quelle Toyota che i figli non solo comprano ma pure vendono.
Come sempre Eastwood non rinuncia ad essere anche didascalicamente didattico, così, quando finalmente si fa confessare dal giovane parroco, ecco che uno dei tre peccati che dice di aver commesso nella sua vita è quello di non aver pagato le tasse sulla vendita di una piccola barca, perché "evadere le tasse è come rubare". Una battuta che da noi, purtroppo, è più destinata a far ridere che a far riflettere.

Gran Torino è un grande film dove azione, commedia, tensione, violenza e commozione trovano posto armonicamente, senza forzature, attraverso una forma filmica rigorosa, asciutta e, a volte, persino ingenua, come è sempre più difficile vedere. Un ultimo consiglio è quello di godersi il film fino all’ultima inquadratura, dove, dopo un morbido dolly, la macchina da presa si ferma in un punto che ci riporta alle origini stesse del cinema: una potente veduta Lumière della baia del lago Erie, dove si vede il traffico di tutti i giorni e sulla quale scorrono integralmente i titoli di coda, mentre si tornano a sentire le note della bellissima e struggente Gran Torino, canzone scritta e soprattutto cantata da Eastwood, la stessa che, nella sua versione strumentale, apre il film sul "classico" logo in bianco e nero della Warner Bros. E il cerchio si chiude.

Gran Torino
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