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Un mezzo di contrasto “musicale” per rendere visibile la realtà

di Cristina Grazioli
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Data di pubblicazione su web 05/03/2009  

Al centro di una scena articolata orizzontalmente su tre piani e verticalmente su profondità diverse, di fronte ad un microfono sta Lulu e piange. Nulla di drammatico, semmai un tono ironicamente comico nella situazione, che riproduce uno studio di registrazione in cui Lulu si accinge al duetto con Schwarz. In questa nuova regia del testo di Wedekind il regista David Marton utilizza, come ormai da una ventina d’anni si usa fare in Germania, il primo testo approntato dall’autore e rifiutato dall’editore e dalla censura, Die Büchse der Pandora. Eine Mönstretragödie (1894). Versione di maggior impatto scenico, stretta nei cinque atti che poi verranno scissi ed ampliati nel dittico Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora. L’operazione di Marton è impeccabile dal punto di vista compositivo: appoggiandosi al testo di Wedekind e insieme alla traduzione in musica di Alban Berg, costruisce una partitura degna di un teatro musicale della nostra epoca: il nastro visivo procede insieme alle traiettorie degli attori e delle voci nello spazio, alla costruzione (o meglio scomposizione) del personaggio, mentre i generi musicali di differente origine vengono utilizzati secondo una funzione drammaturgica.


La prima scena sembra rivelare ‘en abyme’ il taglio registico: Lulu (Lilith Stangenberg) deve interpretare la parte e il direttore dello studio (Ben Höppner) la aiuta a superare l’emozione del momento, in uno scambio di gesti e battute ‘fuori copione’ che parodizza i luoghi comuni del training d’attore. Ma non appena attacca il dialogo con Schwarz, che inizia dalla battuta di Lulu «è la prima volta che mi  lascia sola con un estraneo» (sottinteso Goll, che poi morirà di un colpo apoplettico sorprendendo i due amoreggiare), la messinscena esibisce le proprie coordinate. La battuta è emblematica dell’ingenuità di Lulu, della sua infantile purezza, tratto decisamente più forte nella versione originaria del testo rispetto alle successive. La scena viene ‘tradotta’ dal regista in partitura sonora, alla maniera di un dramma radiofonico, e contemporaneamente adattata ad una situazione contemporanea: Schwarz (Holger Bülow) fa salire Lulu nella sua macchina, la conduce in un giro di cui si percepisce tutta la pericolosità, accecato dalla seduzione di lei che gli fa perdere il controllo della vettura (un’allusione al destino finale di Lulu). Con un procedimento di reiterazione e ripresa di certe battute (per esempio nella scena finale) che autorizza a parlare di una composizione in termini “musicali” della messinscena. La parola diviene “tema”, tessera compositiva che  alla pari di altri codici  garantisce una solida struttura della scrittura scenica. In questo incipit, a nostro avviso emblematico, Schwarz chiede a Lulu di alzare più su il vestito (la battuta è presente nel testo di Wedekind nel contesto del suo ritratto da parte del pittore); il frammento è sottoposto ad una amplificazione parossistica: tutto il nastro sonoro è agito a vista da un (abilissimo) attore-rumorista (Thorbjörn Björnsson, che sarà anche il circense Rodrigo); le parole di Schwarz vengono ripetute in modo incalzante da altri attori; vi si innesta la musica di Berg: le battute di Lulu si fanno canto, il personaggio viene triplicato grazie ad una seconda Lulu dalle corde ‘jazz’ (Yelena Kuljic) e ad una terza Lulu ‘lirica’ (Yuka Yanagihara), fino a che alla moltiplicazione della voce corrisponde una scomposizione nello spazio: tutte e tre fuggono verso l’alto, percorrono velocemente scale che articolano la scena spostandone continuamente il centro, inseguite ognuna da un uomo, in una sorta di deflagrazione della sonorità e dello spazio, raggiungendo un vertice emotivo che rovescia drasticamente la situazione ironica e straniata iniziale.
                                                      


Una scena dello spettacolo

Abbiamo indugiato sulla prima scena perché ci è parsa significativa per dare conto dei procedimenti adottati. La formazione musicale del regista ungherese (cha dal 1996 vive a Berlino) impronta la messinscena: se il punto di partenza sembra essere l’opera di Berg e la composizione dei vari codici linguistici orchestra un tessuto concepito musicalmente, è altrettanto vero che parola, immagine, suono danno luogo ad un insieme assolutamente coeso, dove la dissonanza vivifica tutti gli elementi: per David Marton «è necessario iniettare nella realtà un mezzo di contrasto», utilizzare mezzi che come le radiografie ne mettano in luce la struttura. Marton dichiara di considerare una vera impasse il fatto che nel teatro musicale il regista si debba occupare della gestualità degli interpreti e il direttore d’orchestra delle loro voci: ne deriva un ‘litigio’ che sembra spezzare gli organi del corpo dell’attore, portando le corde vocali da una parte e il corpo da un’altra.

Rispetto alla sua lettura della protagonista, forse non è inutile rammentare che il giovane Alban Berg, presente alla prima viennese del 1905 organizzata da Karl Kraus, traduce Lulu in figura “musicale” (lasciando incompiuta l’opera alla sua morte, nel 1935). Nell’opera di Berg, Lulu si fa ancor più oggetto sfuggente, simbolo dell’indicibile. L’enigma Lulu, di cui uno dei segni percepibili è la sua plurima identità, viene presentata da Marton nelle mille e inafferrabili sfaccettature. Se nel testo di Wedekind è Pandora, Lulu, Nellie, Mignon, Eva, Marton non solo triplica, ma idealmente, forse, moltiplica all’infinito la figura. Così questa scomposizione (rispecchiata nei costumi, nelle voci, nello stile dei movimenti e delle interpretazioni) consente di mantenere i suoi tratti di ingenuità, di selvaggia animalità, di gelida femme fatale. «Immagine del desiderio e spaventosa visione in Wedekind, diviene in Berg una donna autodeterminata, giovane, una dinamica eroina della metropoli» (Beate Heine nel programma di sala). «Ho nostalgia di un teatro musicale al di là dell’opera, un mondo di forti beats, del suono ruvido di un quartetto d’archi di Bartok e della forza immediata di una buona colonna sonora cinematografica». Questa dimensione che applica il concetto di “opera” alle suggestioni della cultura contemporanea intride lo spettacolo, riproponendo in modo originale l’interrogazione sullo scambio, sull’interazione e sulla reciproca influenza dei codici: parola, musica, spazio, i singoli elementi presi nella loro materialità (prima ancora delle varie arti), vengono messi in frizione ed esprimono la loro potenzialità ‘narrativa’. Tra gli “oggetti” che compongono il montaggio visivo, per esempio la cabina di registrazione, arretrata e isolata nella parte superiore della scena: una finestra/schermo che trasforma il palcoscenico in un quadro cinematografico, accompagnato da una colonna sonora. Testo e musica si vivificano l’un l’altro in un incessante  processo di scomposizione e ricomposizione, nel senso letterale, visivo e musicale. Certo l’arduo compito è reso possibile anche da un cast di giovani attori assolutamente duttili: «nel mio lavoro ho avuto la fortuna di incontrare attori che stupiscono con la loro musicalità», spiega il regista che, tra l’altro, spesso affida frammenti del testo alla recitazione nella lingua d’origine degli attori (in questo caso per esempio slavo, giapponese, islandese).

Il climax del Vaso di Pandora di Wedekind, l’omicidio di Schöning alla fine del III atto, viene progressivamente depotenziato: isolato entro il rettangolo definito dalla cornice della cabina del direttore della registrazione, ripetuto tre volte con effetto replay, dalle tre diverse Lulu, e ogni volta con sfumature che offrono differenti chiavi di lettura: da una Lulu inconsapevole ad una fortemente determinata a sparare. La varietà è anche nell’accompagnamento musicale, fino all’ultimo dei tre che liquefa la tensione emotiva in una colonna sonora cinematografica strappalacrime. Il complicato intrigo descritto da Wedekind nel  IV atto, la fuga a Parigi di Lulu e la sua apparizione nella festa mondana, viene risolto utilizzando drammaturgicamente un successo dei Manhattan Transfer: Blee-Blop-Blues viene eseguito coinvolgendo tutti i personaggi in una scena fortemente dinamica: una “drammaturgia musicale dello spazio” che, grazie all’articolazione e alla reiterazione dei suoni che invadono come corpuscoli altezze e profondità, vocali e spaziali, si rivela un’efficace soluzione per condensare la complicata azione in immagine musicale e visiva.Dopo la scena corrispondente al IV atto cala uno schermo su cui viene proiettato un video (ripreso ad Hannover il 3 febbraio 2009), che sposta l’azione nei vicoli della metropoli dove Lulu concluderà il suo destino; la tela si rialza per far posto all’ultima scena risolta in modo originale: un collage di frammenti del testo (i più legati al motivo del desiderio maschile e dell’incoscienza della protagonista) compone la scena finale dove l’omicidio di Lulu da parte di Jack the Ripper viene alluso, raccontato dal musicista alle tastiere (Sir Henry). Ai frammenti di Wedekind/Berg si aggiungono altre citazioni: per esempio da Sympathy for the devil di Godard (non a caso un film che “mette in spazio” una famosa canzone dei Rolling Stones) e da Lulu on the bridge, il film di Paul Auster che intreccia la memoria della Pandora di Wedekind alla storia di un sassofonista Jazz (citazione evidenziata dal programma di sala).

L’infinita molteplicità dei punti di osservazione, le caleidoscopiche metamorfosi, composizioni e scomposizioni di Lulu trovano così la loro più riuscita traduzione nel linguaggio sonoro, affidato al doppiaggio, alla pluralità delle voci e delle lingue, alla varietà dei generi musicali e ad un griglia uditiva che ingloba e sorregge parole, spazio, azione: un teatro musicale del XXI secolo.   



Lettera da Berlino
Lulu di Wedekind

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