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«Il carro e i canti»
a cura di Leonardo Mello

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  Alessandro Solbiati
Data di pubblicazione su web 05/03/2009  

Pubblichiamo qui di seguito un articolo che apparirà nel prossimo numero della rivista ‘Veneziamusica e dintorni’.

Alessandro Solbiati, uno dei nostri maggiori compositori, per la prima volta si prova con un lavoro di teatro musicale, Il carro e i canti, tratto dal Festino in tempo di peste di Aleksandr Puskin, e commissionato dal Teatro Verdi di Trieste. Gli chiediamo come è nata questa collaborazione.

La gestazione è piuttosto semplice: il 29 gennaio del 2008 mi trovavo a Trieste, perché in occasione della Giornata della Memoria era in programma l’esecuzione di un mio brano strumentale, Memoriam. Durante un incontro con la direzione del Verdi nacque su loro proposta l’idea di un’opera teatrale. In realtà al teatro musicale io avevo già cominciato a pensare da un po’ di tempo, tanto che avevo proposto al Regio di Torino un progetto sulla Leggenda del grande inquisitore di Dostoevskij (che poi è effettivamente andato in porto, e vedrà la luce nel 2011). A Trieste volevano però un lavoro da presentare nella stagione 2008-2009, e pensavano a una composizione di circa cinquanta minuti. Al principio si era ipotizzato anche di affiancarla, nella stessa serata, al Gianni Schicchi, e questo mi diede lo spunto per l’idea originaria, sulla quale rimuginavo già da un po’: lavorare su una composizione scenica di Kandinskij, che con lo Schicchi aveva uno stretto rapporto, essendo entrambe le opere del 1909 (e quindi anche perfette per celebrarne il centenario). Purtroppo però gli eredi diretti di Kandinskij inspiegabilmente non hanno mai risposto alle nostre richieste, e quindi, se pur a malincuore, abbiamo dovuto abbandonare questa strada. Per fortuna Gabriele Bonomo, che è il mio editore (oltre che buon amico), mi ha proposto la lettura di alcuni microdrammi di Puskin. Io però, invece di indirizzarmi sui due più famosi, Mozart e Salieri e Il convitato di pietra, sono rimasto subito folgorato da un altro testo, durissimo, che si intitolava Il festino in tempo di peste, nel quale in un’unica scena si muovono quattro personaggi (più un quinto che si aggiunge nella parte finale). Costoro celebrano una festa mentre fuori infuria la peste. Come è ovvio, in una situazione così terribile si alternano tutte le reazioni psicologiche possibili a quanto accade fuori: angoscia, rimozione, sarcasmo, baldanzosità, spavalderia, malinconia, nostalgia... Ho immediatamente pensato alle possibilità che questo testo mi forniva per dire qualcosa che andasse al di là del mero arco narrativo, che è il vero motivo per cui mi sono avvicinato al teatro: secondo me il nostro mondo è proprio così, superficiale, rumoroso e pieno di lustrini. Senza cadere nella retorica, se ci si guarda intorno ci sono due miliardi di persone che muoiono di fame, l’ambiente va a catafascio e via dicendo. E noi festeggiamo! Insomma, sin da subito ho colto un’immagine forte e facilmente riferibile alla nostra contemporaneità. A questo proposito c’è anche un precedente che mi riguarda: quindici anni fa ho messo in musica la Decima elegia duinese di Rilke per soli, coro e orchestra: quel componimento parte proprio dall’immagine della rimozione del dolore, che al giorno d’oggi (e per oggi in questo caso intendo il 1922) viene considerato soltanto una spina scomoda da togliersi il più rapidamente possibile. Il poeta offre un’immagine del mondo come un immenso luna park, sulle cui mura c’è scritto: «Qui dentro non si muore!», e nel quale la banca – dove si può assistere alla riproduzione sessuale del denaro – è l’attrazione principale. Direi che Puskin tratta più o meno lo stesso tema.

Il libretto l’hai realizzato tu stesso, attraverso una serie di fasi di elaborazione...

Premetto che sinceramente non riesco a capire come si riesca a comporre un’opera senza scriversi il libretto in proprio: io, fino all’ultimo giorno, ho cambiato tutto, parola per parola. All’inizio mi sono rivolto alle traduzioni esistenti, che però mi sono apparse subito poco adatte a una versione musicale. Ho dunque ottenuto dal Teatro di Trieste di far ritradurre il testo da Silvia Canavero, che oltre a essere laureata in russo è anche una violinista. A lei ho chiesto una traduzione letterale nel vero senso del termine, cioè parola per parola. Da lì è cominciata la mia operazione di asciugatura, partendo dalla considerazione che mentre il teatro parlato deve dire tutto, nell’opera musicale molte cose le dice già la musica, e le ripetizioni non fanno altro che appesantire. Nonostante quest’asciugatura però il libretto che mi ero costruito al principio si è ulteriormente ridotto della metà, facendo attenzione d’altro canto a non saltare alcun passaggio del testo originale. Sono partito dal presupposto che le parole, per poter essere musicalmente pregnanti, devono essere poche e forti. Il lavoro sul testo mi ha impegnato fino alla fine di luglio, e dagli inizi di agosto, alzandomi tutti i giorni non più tardi delle cinque e mezza, ho prodotto queste 178 pagine di partitura.
 

Bozzetto inedito per la scenografia realizzato da Domenico Franchi
Bozzetto inedito per la scenografia realizzato da Domenico Franchi



 

Perché hai scelto come titolo Il carro e i canti?

I quattro personaggi che stanno sempre in scena – Mary, Il Giovane, Luisa e Walsingham – incarnano delle tipologie: i due più giovani rappresentano l’ala sarcastica e graffiante del quartetto, mentre la donna e soprattutto l’uomo più maturi raffigurano la parte pensosa e malinconica. Ma già il testo originale ruota attorno a un evento cruciale: il passaggio di un carro pieno di cadaveri. Prima e dopo questo passaggio nascono due diversi canti. Un po’ dopo l’inizio, uno dei personaggi prega Mary di cantare un canto di malinconia. E lei intona un vero e proprio Lied. Dopo il passaggio del carro, anche a Walsingham, il personaggio maschile più riflessivo e pensoso, viene richiesto di cantare qualcosa, e sorprendentemente questi propone un inno alla peste. Ecco spiegato il motivo del titolo: attorno a questo carro, con la sua ineludibile immagine di morte, si sviluppano simmetricamente due canti dal senso profondamente diverso. Il quinto personaggio, che è un sacerdote, giunge alla fine e diviene una sorta di deus ex machina: tentando di convincere gli altri che quello cui stanno partecipando è un festeggiamento immorale e inopportuno, invoca il nome dell’amata di Walsingham, morta da poco di peste, e così facendo porta quest’ultimo alla pazzia. Il finale si concentra tutto su questo personaggio, che perde la sanità mentale e si estromette dalla festa.

Quali rapporti hai sviluppato con il regista Ignacio García e con lo scenografo Domenico Franchi?

Mentre ho cercato di suggerire al Teatro triestino che a dirigere l’opera fosse Paolo Longo (che già aveva lavorato a Memoriam), e ho pensato io stesso ad alcuni strumentisti per me fondamentali, per quanto riguarda la regia – trattandosi della mia prima opera teatrale – ho chiesto soltanto che fossero rispettati dei requisiti, ho fornito cioè una specie di «identikit»: che fossero giovani, disponibili a incontrarsi con me prima ancora dell’inizio del lavoro di composizione e possibilmente in grado di leggere la musica. Non riesco infatti a comprendere come un regista possa lavorare a un progetto simile senza capire una partitura. Di tutto questo ringrazio moltissimo il Verdi, perché Ignazio García, pur giovane, si è già più volte provato nella regia musicale ed è diplomato in clarinetto. Domenico Franchi poi è un allievo di Ezio Frigerio, e questo offre di per sé una garanzia. Con entrambi ho avuto la possibilità di incontrarmi moltissime volte, scambiandoci proficuamente le rispettive idee e immagini, anche in una fase molto acerba dell’elaborazione. Faccio solo un esempio: il testo di Puskin inizia con un brindisi, mentre la mia opera parte con un abbondante prologo che crea un’ambientazione di morte e disfacimento. Era dunque fondamentale che il regista sapesse che è in quella situazione che si innesta il surreale brindisi dei partecipanti alla festa.

Cosa ci puoi anticipare della musica?

Durante il processo compositivo, strada facendo mi sono reso conto che avevo bisogno di una struttura: molto presto, direi sin dal primo appunto, ho usato nel mio cuore il termine di «sinfonia scenica». Rifiutando l’elettronica ho invece immaginato una vera e propria orchestra sinfonica: l’opera l’ho progettata come fosse un grande pezzo sinfonico dotato di testo e arco narrativo. E a costo di rischiare di essere considerato neoclassico, cosa che proprio non sono, ho usato terminologie «storiche» per le varie strutture. Ad esempio, per il primo ingresso del giovane baldanzoso, aggressivo e sarcastico mi è nata l’idea della passacaglia, nel senso di una perorazione iniziale in funzione del tema e di una semivariazione che dà l’idea dell’ostinazione attorno all’angoscia della peste. Ho «giocato alle forme», per cui c’è un prologo, che è orchestrale, questa passacaglia del giovane, il Lied – che ho sottotitolato «Omaggio a Schubert» –, il passaggio del carro e poi tutta una zona di interventi più brevi che rappresentano le varie reazioni psicologiche a questo terribile momento, che ho inquadrato in un’unica forma chiamata polifonia: si tratta di interventi che mettono in scena diverse reazioni psichiche, quindi è di fatto una polifonia di psiche. Poi viene il secondo canto, l’inno alla peste – anch’esso sottotitolato come «Omaggio a Mahler». Quando infine entra il sacerdote e impone di terminare quella festa blasfema, tutti gli urlano di andarsene: allora mi è sembrato indicato chiamarlo responsorio...

Voglio aggiungere che in scena ci sono fin dall’inizio due strumenti, un cimbalom e una fisarmonica, e questo per diversi motivi. In primo luogo perché, trattandosi di una festa, mi sembrava naturale che fossero coinvolti degli strumenti. Poi, per fare solo un esempio, il cimbalom mi sembrava appropriato ad accompagnare il Lied di cui ho accennato poc’anzi. Quando invece arriva il sacerdote, avviandoci all’epilogo, nella sua irruzione c’è un che di sarcastico: allora ho fatto in modo che insieme a lui irrompesse anche la fisarmonica, che è uno strumento da festa o similpopolare ma anche una specie di organo. Nella parte finale poi, quando l’obiettivo si stringe su Walsingham nel momento in cui perde la sua lucidità mentale, a poco a poco la musica abbandona l’orchestra e si focalizza solo su questi due strumenti.


 


Bozzetto di scena
Bozzetto inedito per un costume di scena realizzato da Domenico Franchi
 


 

Bozzetto inedito per un costume di scena realizzato da Domenico Franchi
   Bozzetto inedito per un costume di scena realizzato da Domenico Franchi

 

 
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