Nellautunno dello scorso anno, Maurizio Scaparro aveva promosso per conto della Biennale Teatro un ampio ventaglio di laboratori sulla creazione teatrale, sviluppati spesso in modo sincronico nellarco di circa 40 giorni in vari spazi veneziani, dallisola di San Servolo al Teatro Universitario di Santa Marta, con sconfinamenti in terraferma. I risultati sono stati davvero interessanti, poiché sono emersi i nodi relativi al lavoro degli attori e dei registi dinanzi alla moltiplicazione dei linguaggi espressivi, dalle componenti musicali, collocabili tra la zona etnologica e lelaborazione colta, alla preparazione mimico-coreografica e ancor più alla parola-gesto. Ma è stata evidenziata anche la labilità delle drammaturgie, soprattutto quando si prova ad allargare lorizzonte sulle lingue e sulle abitudini “teatrali” dei paesi che si affacciano sullarea mediterranea: dallAmleto, curato da Gabriele Vacis con gli allievi del Teatro Nazionale Palestinese, a Cera una volta, condotto da Scaparro incontro alle incongruenze della memoria fiabesca sepolta sotto la “polvere di Bagdad”, dalla rivisitazione del mito di Antigone allOrlando di Virginia Woolf, da In volo verso Simurgh, ricavato da Mantiq at-Tayr (Il verbo degli uccelli) di Farid Ad-dīn Atta, al Teatro come arte della navigazione, tratto dal Capitano Ulisse di Alberto Savinio, e così via.
Una scena dello spettacolo Le sorelle Bronte
A distanza di pochi mesi, Scaparro ha dato il via al 40° Festival internazionale del teatro, ancora sotto linsegna del “Mediterraneo”, nel cui cartellone si sono alternati lospitalità di compagini italiane e straniere e gli sviluppi scenici dei precedenti laboratori formativi. Dopo aver premiato lintensa tragicità “arcaica” di Irene Papas con il Leone doro alla carriera, il primo spettacolo della rassegna veneziana è stato lo sperimentale Le sorelle Brontë, sul libretto scritto nel 1964 dellegiziano Bernard de Zogheb (e pubblicato da Adelphi), nato da uno studio espressivo sulla “lingua franca”. Nelle mani degli adattatori Stefano Valanzuolo e Davide Livermore, che firma anche la regia, si è assistito ad un divertente e trasgressivo vaudeville senza trama, basato sulle ipotetiche vicende delle tre sorelle scrittrici e, soprattutto, sul puro gioco parodistico-demenziale, ottenuto impastando dialoghi e canzonette, tratte da motivi in voga, per lo più indicati dallo stesso autore. Lo interpretano en travesti Alfonso Antoniozzi, Davide Livermore e una schiera di dieci cantanti liriche italiane e straniere, che interpretano ora linsieme corale, ora una comunità di badanti autoctone e extracomunitarie, ora suorine e presenze di varia umanità, ora personaggi maschili che incrociano le Brontë. Lesito davvero apprezzabile intreccia divertissement, gusto kitsch, satira popolare con immersione nella cronaca e nellattualità, indicando una traccia professionistica da sostenere verso linterferenza di canto, recitazione e danza.
Una scena dello spettacolo Argelino servidor de dos amos
Un successo, contestato dal vento leghista veneto, è stato Argelino servidor de dos amos (Arlecchino servitore di due padroni) elaborato liberamente da Alberto San Juan in spagnolo e in arabo e messo in scena dal Teatro de la Abadīa di Madrid, per la regia di Andrés Lima. Il testo di Goldoni è trasferito in una dimensione nostra quotidiana; infatti, il protagonista è un immigrato clandestino, sbarcato rovinosamente sulle sponde europee del Mediterraneo, senza documenti e senza identità, che cade subito in balia dello sfruttamento e della crudeltà del mondo civilizzato. Il magrebino Argelino singegna a sopravvivere, stritolato comè non solo dalla sopraffazione che contrappone servo e padrone, ma anche dallambigua conflittualità che emerge tra uomo e donna, tra uomo e uomo. Anche lelemento comico sfrutta unidea dellimprovvisazione e del lazzo rivolta alla satira più violenta.
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