Secondo e, per questanno, ultimo titolo operistico del Teatro delle Muse, il popolarissimo Rigoletto si riconnette al misconosciuto Emperor Jones che aveva aperto la stagione anconetana per almeno due ragioni: le sotterranee affinità di drammaturgia vocale (nel gobbo di Hugo e Verdi come nellex lege di ONeill e Gruenberg troviamo un personaggio baritonale dimpressionante statura tragica) e la bacchetta di Bruno Bartoletti, verdiano di lunghissimo corso, ma anche indefesso esploratore del repertorio novecentesco.
È stata proprio la direzione di Bartoletti – che con Rigoletto debuttò sul podio nel 1953, e in cinquantasei anni di carriera è tornato spesso su questopera – uno dei due punti di forza dello spettacolo. Giunto ormai a quel dominio assoluto della partitura che consente a un direttore di affidarsi totalmente ad essa, senza reticenze né preziosismi, lottantatreenne maestro mostra di credere a un Rigoletto non filologico – laggettivo aprirebbe un ginepraio di questioni su stile vocale e organico strumentale – ma, più semplicemente, fedele alle indicazioni verdiane: senza quei tagli di rigore ieri, spesso praticati anche oggi, che hanno minato la fisionomia di alcune pagine (quante volte abbiamo sentito un «Veglia, o donna» dimidiato?) e non privo di certe varianti entrate nel lessico familiare (una per tutti: il “rallentando” prima del «Sì, vendetta»), escludendo però quelle puntature (il Sol del baritono al termine di «Pari siamo», il Mi bemolle del soprano in «Caro nome», il Re del tenore in chiusura di cabaletta) che danno un tocco esornativo a pagine in sé perfette.
Questo fiducioso abbandono allautore si nota pure nella scelta dei tempi. Al contrario di certe letture di Bartoletti in area pucciniana, qui non si avvertono quelle dilatazioni e quegli indugi che, per far delibare talune finezze strumentali, sulla distanza possono tradursi in stagnazione. Tutto appare – molto verdianamente – allinsegna di una grande tensione e continuità, a cominciare da quellinquieto crescendo su un basso ostinato che innerva il Preludio, e che è raro ascoltare così ben evidenziato in teatro. Anche quando i tempi possono apparire indugianti, come in «Caro nome», lo sono in rapporto alla prassi esecutiva, non alla lettera dellautore: Verdi, per questa pagina, ebbe a parlare di «allegretto molto lento», e forse è proprio il tempo moderato impresso dal direttore che ha agevolato Annick Massis – cantante assai musicale, ma non pirotecnica – nellaffrontare le agilità che costellano il brano.
Laltro punto di forza è il protagonista. Vladimir Stoyanov è nato e ha studiato in Bulgaria, ma per rotondità di emissione e scolpitura di dizione il suo è un canto di ottima scuola italiana. La voce non ha un colore privilegiato, ma appare perfettamente timbrata e omogenea a tutte le altezze. Né si tratta di un cantante che simpone per qualche peculiarità: è un baritono che conquista per la solidità dellarco complessivo della recita, dove lestrema correttezza della linea canora si accoppia a una personalità senza tentazioni mattatoriali, eppure tuttaltro che pallida. Ai suoi primi passi come Rigoletto non ha scavato a fondo il personaggio, risolto, per il momento, più nella dimensione paterna che in quella del “mostro”: se la mancanza di gigionismi è benemerita, qualcosa per rendere più violentemente derisorio questo buffone durante la scena della festa poteva esser fatto. Il piacere di ascoltare un Rigoletto tutto risolto nel canto, senza ghigni né grida, pareggia però il conto; mentre lesito notevolissimo di alcuni momenti nel prosieguo dellopera – i duetti con Gilda, soprattutto – lo fanno chiudere pienamente in attivo.
La Massis è una di quelle cantanti destinate a catturare o lasciare perplessi, a seconda che si privilegi lo spirito o la materia. In altre parole: si potrà restare ammirati da un soprano che, grazie a musicalità e compenetrazione interpretativa, fa dimenticare i limiti di una voce assai povera nel fondamentale nucleo colore / volume; oppure – pur prendendo atto della sua intelligenza ed eleganza di artista – si potrà giudicare quella stessa voce troppo pallida e magra (e anche di fiati un po corti, la sera della “prima”), in rapporto a una cantante che voglia definirsi, a tutti gli effetti, “operistica”. Giovane e lanciatissimo, Stephen Costello è un Duca di Mantova che abbina un registro superiore gradevole a centri più compressi, e una presenza scenica accattivante a una linea di canto da rifinire. Physique du rôle ideale unito a limiti vocali caratterizzano pure la Maddalena di Stefanie Irány, godibile più alla vista che alludito, e lo Sparafucile – imponente in scena, ma di emissione un po cruda – di Arutjun Kotchinian, che forse avrebbe potuto passare il testimone al secondo basso del cast, Francesco Palmieri, capace di plasmare un Monterone vigoroso e insolitamente giovanile. Tra i comprimari merita una citazione Tiziana Tramonti, efficace nel trasformare Giovanna da angelo custode a venalissima ruffiana.
Sani criteri di economicità in questo periodo di crisi – e che resterebbero validi pure in tempi di vacche grasse – hanno indotto il Teatro delle Muse a varare un allestimento nuovo, ma a metà: lo spettacolo, così comè confezionato, non si era mai visto, ma si tratta di un assemblaggio di scenografie prese da precedenti allestimenti, sia anconetani sia di altri palcoscenici circonvicini (in locandina si parla di «impianto scenico ideato da Francesco Lozzi»). Il patchwork non è forzato: anzi, leterogeneità dei materiali porta a una sorta di stratificazione visiva che risolve felicemente quella compresenza, nellambito di un medesimo quadro, tra “interni” ed “esterni” che è la croce di ogni scenografo del Rigoletto. Sulla base di questo materiale precotto Stefano Vizioli si presta, con pragmatismo da artigiano, a improvvisare una regia: e la griglia in cui è costretto lo induce a una lettura piacevolmente illustrativa, nel solco della tradizione, dove gli unici momenti poco riusciti sono quegli affondi simbolici (il letto come elemento collante tra i vari quadri) e quelle forzature di rapporti (Maddalena e Sparafucile visti in unottica vagamente incestuosa) che dalla tradizione si discostano.
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