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Il miraggio dell'immortalità

di Anna Menichetti
  una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 26/02/2009  

Una “scossa”. Così Theodor W. Adorno definì nel 1929 la musica di Leoš Janáček per la sua ultima opera L’affare Makropulos, data nello scorso mese di gennaio al Teatro alla Scala di Milano nello splendido allestimento di Luca Ronconi, creato per il Regio di Torino nel 1993. Un’opera che è cifra autentica del linguaggio originale e maturo del grande compositore ceco e che esprime il legame stretto e viscerale che il teatro musicale ha raggiunto e instaurato con la letteratura, la storia e i turbamenti laceranti della società europea del primo Novecento. Janáček si fa rapire dal testo teatrale di Karel Čapek (inventore insieme al fratello Josef del termine robot) e ne elabora personalmente il libretto: una storia surreale che narra il disagio di un’epoca, ormai scientificamente lanciata verso il miraggio dell’immortalità.

Foto di scena di Marco Brescia ©


Tutto ha inizio nel 1585, data di nascita della protagonista: il padre è medico di corte di Rodolfo II d’Asburgo, e in piena “Praga magica” crea una pozione  che rende eterni…Rodolfo non si fida e costringe il medico a sperimentarla sulla sua giovane figlia. Ma chi potrà verificare se è davvero efficace? Noi spettatori ovviamente, che ci troviamo di fronte, nel 1922 data di ambientazione dell’opera, una cantante bellissima di 337 anni che la sa lunga ormai sulla vita, sul teatro e sugli uomini: tanto da “vivere” tutto con infinita indifferenza e con difensivo e definitivo cinismo. Una “scossa” dunque, sia il testo della commedia sia la musica che si compone e si scompone energicamente vitale in un gioco perverso di frammenti di specchi nei quali è ravvisabile un tratto formale ma non la forma intera, un ricordo melodico ma non la melodia, un accento accorato e mai l’intero arco emozionale: e non ci si sente mai abbandonati in questo spezzarsi continuo d’ascolto, storie e azioni, schegge elettriche d’ansia e d’attesa, soprattutto tradotte e sostenute dalla regia di  Luca Ronconi con le scene di Margherita Palli. Che scelgono per il primo atto uno studio d’avvocato sul quale incombono alte librerie non in prospettiva ma in “assonometria”, colonne “storte”: un’idea “sghemba” degli elementi come visti dall’alto in una prospettiva deformata, tratto ricorrente e vincente dei due artisti nei loro più celebri allestimenti.

 


Queste librerie sembrano restare in piedi solo per un gioco magico forzato: al centro di esse una lunga passerella sospesa, porta gli attori al centro del palcoscenico. “Una sfida pazzesca” definisce Ronconi questa assurda idea di corridoio, come lo chiama lui, in totale pendenza dall’alto verso il centro della scena in piano. Su questo corridoio gli attori entrano e si muovono con difficoltà poiché la pendenza li costringe a un'andatura contratta e innaturale: divengono marionette umane a disagio, impacciate, con la paura di cadere durante il percorso di arrivo al centro della scena. Qui la gestualità recitativa degli attori è prevalentemente giocata sulla semplicità del tratto quotidiano, eppure straniante: tanto perfetto e ricercato persino nel dettaglio (la sigaretta accesa, la ricerca del  posacenere e altro) da lasciare un’impressione inquietante: un’immagine riflessa allo specchio, fredda e non vera. In questo ambiente angusto e soffocante fa la sua apparizione lenta e maestosa la protagonista: costretta anche lei all’entrata pericolosa sul corridoio in pendenza, ha il passo di una vecchissima signora, ma poi raggiunto il proscenio, la scopriamo improvvisamente giovane bella e sensuale. Elina Makropulos, che nei secoli ha dovuto cambiare molti nomi, oggi Emilia Marty, deve tornare in possesso della formula della pozione magica: sente che la vita l’abbandona; di atto in atto, però, pur con guizzi e ricordi e seduzioni, si fa sempre più “stanca di tanta vita”. Il corridoio non darà respiro mai alla scena anche negli atti successivi, che si compongono di poco: sedie, poltrone, divani; sono soprattutto le figure umane che arredano la scena negli abiti apparentemente “normali” di Carlo Diappi. E nel finale, dopo essersi riappropriata della formula alchemica in cambio di una notte di piacere con l’erede della famiglia Prus che ne era in possesso (a noi viene un brivido lungo la schiena quando il barone commenterà l’incontro con l’impressione di aver fatto l’amore con una morta), la scena si svuota di senso: uomini e oggetti impallidiscono. Resta lei, su una poltrona, illuminata da una crudele luce di ghiaccio che dall’alto svela il giallo amaro e il bianco accecante dei suoi pochi capelli di vecchia. E la formula magica viene data alle fiamme dalla giovane cantante Kristina che della vecchia diva ha pietà.



Eccellente il cast: Angela Denoke voce e corpo sinuosi nella parte di Elina; Jolana Fogas sincera e timida nella parte di Kristina; Mark Steven Doss seducente nella parte di Jaroslav Prus e ancora voci solide quelle di Peter Bronder, Erik Stoklossa, David Kuebler, Alan Opie, Miro Dvorsky; orchestra lucente sotto la direzione energica e di preciso scatto ritmico di Marko Letonja. Infine è giusto ricordare la traduzione italiana nella versione ritmica che Sergio Sablich approntò per la messa in scena dell’opera al Teatro Comunale di Firenze nel 1983, sempre utilizzata nelle diverse realizzazioni italiane. Grande percorso quello seguito dal Teatro alla Scala nel proporre in questi anni tutto il teatro musicale di Leoš Janáček, espressione elevata del migliore repertorio del Novecento, con felicissimi allestimenti, e che, occorre sottolinearlo, vedrà in cartellone un altro capolavoro raramente proposto dell’autore ceco, nella prossima stagione scaligera 2009-2010: Da una casa di morti, tratto da Dostoevskij.


L'affare Makropulos



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