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Un capolavoro sfuggito agli italiani

di Paolo Patrizi
  Una foto dello spettacolo. Foto di Rupert Larl
Data di pubblicazione su web 09/02/2009  

Quando un capitolo di storia viene accantonato, quando una forma d’arte è rimossa dalla mappa culturale che dovrebbe accompagnarci si crea un buco e, inevitabilmente, anche le altre forme d’arte ne risentono. È difficile dire quanto abbia inciso il vuoto conoscitivo tra la prima fase dell’opera tedesca – quella che dal Mozart del Ratto e del Flauto magico arriva fino a Weber – e la fase wagneriana; ma certo il danno, in termini di consapevolezza storica, c’è stato. Ne hanno fatto le spese Spohr (sopravvissuto però come autore cameristico-sinfonico) e Marschner (che solo oggi si affaccia timidamente sui nostri palcoscenici), ma soprattutto ne ha scapitato l’opera buffa: titoli capitali della komische Oper – come molti dei lavori di Lortzing, Nicolai, Cornelius – in Italia restano confinati nei manuali, nonostante una discografia relativamente abbondante e il permanere della loro popolarità nei paesi tedeschi. Dunque, per assistere a un capolavoro come Zar und Zimmermann di Albert Lortzing (1837) bisogna andare al Landestheater di Innsbruck: un nuovo allestimento da parte di un teatro che il pubblico internazionale associa, più che altro, al festival di musica antica che si tiene d’estate, ma che pure nella programmazione invernale offre produzioni interessanti da quando al timone c’è il grande mezzosoprano Brigitte Fassbänder, trasformatasi in direttore artistico dopo il suo ritiro dalle scene.

 

Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl
Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl


L’opera, che per gli italiani ha il plusvalore di un retroterra donizettiano (alla radice c’è un titolo minore, ma non trascurabile, come Il borgomastro di Sardaam, che precede il lavoro di Lortzing di dieci anni), potrebbe spopolare anche nei nostri teatri: per la grazia, la freschezza, l’impeccabile dosaggio di comicità e malinconia, l’altissima fattura della composizione (magistrale il sestetto maschile a cappella, che poi si evolve in un doppio terzetto) mai disgiunta da una costante vitalità teatrale. E questa produzione tirolese potrebbe esser noleggiata con profitto: la sensazione, all’uscita, una volta tanto è quella di aver assistito a una divertente serata di vero teatro. Ne siamo debitori alla dramaturgie di Eva Maskus, che sa come smontare il giocattolo senza snaturarlo, e alla regia di Laurence Dale, che di tale drammaturgia raccoglie le sollecitazioni in una messinscena dove, dietro l’apparente semplicità, nulla è casuale e ogni movimento è regolato sulla musica.

 

Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl
Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl

 

Dalla dialettica – all’apparenza ossimorica, in realtà fertilissima – tra un’impaginazione visiva tradizionale (che piacere ritrovare la Sinfonia a sipario chiuso e i fondali dipinti!) e una riscrittura che non declassa il libretto a canovaccio, ma comunque lo manipola senza scrupoli, sgorga la simpatia e la calibratura dello spettacolo. Ora sostanziale ora di facciata, la modifica dei dialoghi parlati, abbondanti in Zar und Zimmermann, è d’altronde prassi consolidata nel genere Spieloper: quel teatro musicale – di cui Lortzing fu maestro – conversativo, ugualmente propenso al riso e al pianto, caratterizzato dalla medietas del tono e da una moralità sorridente e accomodante.

L’adattamento della Maskus, senza nulla stravolgere, fa il verso alla moda del metateatro e dell’attualizzazione a tutti i costi. Sotto il primo aspetto viene creato un personaggio nuovo: il ruolo, solo recitato, di un regista – il frenetico Philipp Rudig – che si accinge a mettere in scena l’opera di Lortzing. Sotto il secondo profilo, costumi tardoseicenteschi (quelli, appunto, dell’epoca dello zar Pietro il Grande, che si aggira incognito in un cantiere navale nelle vesti di zimmermann, carpentiere) si alternano a grotteschi viraggi verso la storia recente: l’ambasciatore russo si trasforma in un emissario del KGB con valigetta nera, l’arrivo conclusivo dello zar nella sua vera veste è a bordo d’un mitragliante carro armato sovietico. Insomma nulla di sconveniente, ma molto di esilarante; e pure la disinvolta opera di montaggio che, nell’accorpare i due atti conclusivi, sposta molti momenti del terzo – anticipandoli o ritardandoli, rispetto alla scansione del libretto – ha una sua logica stringente, perché ottimizza i tempi sui cambi di scena. Ma qui il recensore non saprebbe dire (anzi, è lui a chiedere lumi) se si tratta di una soluzione di questo spettacolo o, piuttosto, di una prassi esecutiva consolidata nei teatri austrotedeschi.

Il giovane direttore Christoph Lichdi, ben corrisposto dall’Orchestra Sinfonica del Tirolo, esordisce con una Sinfonia precisa, ma forse un po’ scolastica nella relativa povertà del gioco dinamico. Prende quota strada facendo: una lettura vivace ancorché non frizzantissima, improntata a una sostanziale serenità di tono, senza ignorare quegli improvvisi trasalimenti che Lortzing imprime sottotraccia anche nei momenti di letizia. Il palcoscenico schierava apprezzabili professionisti in forza al Landestheater: qualche debolezza, nell’ambito di una prova comunque dignitosa, veniva dal protagonista Daniel Shay, un baritono così chiaro e leggero da non differenziarsi dal tenorino Brender Gunnell, quest’ultimo molto aggraziato – e anche a suo agio nelle espansioni più liriche – nei panni del vero carpentiere, erroneamente scambiato per Pietro il Grande. A Shay, peraltro, va dato atto di aver cantato nella sua integrità una parte assai composita (il personaggio, a seconda che s’immedesimi nella quotidianità del carpentiere o torni a riappropriarsi del titolo di zar, ha toni vocali profondamente diversi). L’aria del primo atto, di notevole difficoltà virtuosistica, è spesso omessa nella prassi teatrale: Shay non vi rinuncia e, bene o male, ne viene a capo.

Qualche limite si riscontra anche nell’altro tenore, Ansgar Matthes, nei panni dell’ambasciatore francese (ruolo di “secondo tenore”, ma solo per la trama: musicalmente la parte è delle più impegnative): annaspa nella tessitura acutissima della sua aria, mentre nelle scene d’insieme ha modo di farsi valere. S’impone invece senza problemi, grazie a mezzi gradevoli e musicalità sicura, il soprano Barbara Pötl; il mezzosoprano Kristina Cosumano è attrice spigliatissima e, per quel poco che ha da cantare, spigliata vocalista; i bassi Marc Kugel (l’ambasciatore inglese) e Sebastian Kroggel (l’ambasciatore russo) sono caratteristi sapidi, e anche qualcosa in più. Da sempre però, per il pubblico tedesco, Zar und Zimmermann non s’identifica con il bifronte protagonista, ma con il personaggio del borgomastro, che non a caso Donizetti aveva prescelto per il titolo della sua opera.

Ideale discendente dell’Osmin del Ratto dal serraglio e naturale antecedente del barone Ochs del Cavaliere della rosa, Van Bett, borgomastro della cittadina di Sardaam, è una colossale figura di “basso buffo profondo”: basterebbe la Gran Scena della prova per il ricevimento dello zar a farne un ruolo epocale, nella storia dell’opera tedesca del diciannovesimo secolo. Con un registro grave poco imponente e acuti spesso fissi, Dirk Aleschus offre una prova che, a un ascolto radiofonico, verrebbe considerata deludente. Ma la corporatura gigantesca unita a una straordinaria frenesia motoria, la mimica irresistibile, la simpatia contagiosa fanno sì che – almeno in palcoscenico – l’applauso più scrosciante sia per lui.






Zar und zimmermann
Zar e carpentiere


cast cast & credits

Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl
Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl




 
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