Quando un capitolo di storia viene accantonato, quando una forma darte è rimossa dalla mappa culturale che dovrebbe accompagnarci si crea un buco e, inevitabilmente, anche le altre forme darte ne risentono. È difficile dire quanto abbia inciso il vuoto conoscitivo tra la prima fase dellopera tedesca – quella che dal Mozart del Ratto e del Flauto magico arriva fino a Weber – e la fase wagneriana; ma certo il danno, in termini di consapevolezza storica, cè stato. Ne hanno fatto le spese Spohr (sopravvissuto però come autore cameristico-sinfonico) e Marschner (che solo oggi si affaccia timidamente sui nostri palcoscenici), ma soprattutto ne ha scapitato lopera buffa: titoli capitali della komische Oper – come molti dei lavori di Lortzing, Nicolai, Cornelius – in Italia restano confinati nei manuali, nonostante una discografia relativamente abbondante e il permanere della loro popolarità nei paesi tedeschi. Dunque, per assistere a un capolavoro come Zar und Zimmermann di Albert Lortzing (1837) bisogna andare al Landestheater di Innsbruck: un nuovo allestimento da parte di un teatro che il pubblico internazionale associa, più che altro, al festival di musica antica che si tiene destate, ma che pure nella programmazione invernale offre produzioni interessanti da quando al timone cè il grande mezzosoprano Brigitte Fassbänder, trasformatasi in direttore artistico dopo il suo ritiro dalle scene.
Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl
Lopera, che per gli italiani ha il plusvalore di un retroterra donizettiano (alla radice cè un titolo minore, ma non trascurabile, come Il borgomastro di Sardaam, che precede il lavoro di Lortzing di dieci anni), potrebbe spopolare anche nei nostri teatri: per la grazia, la freschezza, limpeccabile dosaggio di comicità e malinconia, laltissima fattura della composizione (magistrale il sestetto maschile a cappella, che poi si evolve in un doppio terzetto) mai disgiunta da una costante vitalità teatrale. E questa produzione tirolese potrebbe esser noleggiata con profitto: la sensazione, alluscita, una volta tanto è quella di aver assistito a una divertente serata di vero teatro. Ne siamo debitori alla dramaturgie di Eva Maskus, che sa come smontare il giocattolo senza snaturarlo, e alla regia di Laurence Dale, che di tale drammaturgia raccoglie le sollecitazioni in una messinscena dove, dietro lapparente semplicità, nulla è casuale e ogni movimento è regolato sulla musica.
Una scena dello spettacolo. Foto di Rupert Larl
Dalla dialettica – allapparenza ossimorica, in realtà fertilissima – tra unimpaginazione visiva tradizionale (che piacere ritrovare la Sinfonia a sipario chiuso e i fondali dipinti!) e una riscrittura che non declassa il libretto a canovaccio, ma comunque lo manipola senza scrupoli, sgorga la simpatia e la calibratura dello spettacolo. Ora sostanziale ora di facciata, la modifica dei dialoghi parlati, abbondanti in Zar und Zimmermann, è daltronde prassi consolidata nel genere Spieloper: quel teatro musicale – di cui Lortzing fu maestro – conversativo, ugualmente propenso al riso e al pianto, caratterizzato dalla medietas del tono e da una moralità sorridente e accomodante.
Ladattamento della Maskus, senza nulla stravolgere, fa il verso alla moda del metateatro e dellattualizzazione a tutti i costi. Sotto il primo aspetto viene creato un personaggio nuovo: il ruolo, solo recitato, di un regista – il frenetico Philipp Rudig – che si accinge a mettere in scena lopera di Lortzing. Sotto il secondo profilo, costumi tardoseicenteschi (quelli, appunto, dellepoca dello zar Pietro il Grande, che si aggira incognito in un cantiere navale nelle vesti di zimmermann, carpentiere) si alternano a grotteschi viraggi verso la storia recente: lambasciatore russo si trasforma in un emissario del KGB con valigetta nera, larrivo conclusivo dello zar nella sua vera veste è a bordo dun mitragliante carro armato sovietico. Insomma nulla di sconveniente, ma molto di esilarante; e pure la disinvolta opera di montaggio che, nellaccorpare i due atti conclusivi, sposta molti momenti del terzo – anticipandoli o ritardandoli, rispetto alla scansione del libretto – ha una sua logica stringente, perché ottimizza i tempi sui cambi di scena. Ma qui il recensore non saprebbe dire (anzi, è lui a chiedere lumi) se si tratta di una soluzione di questo spettacolo o, piuttosto, di una prassi esecutiva consolidata nei teatri austrotedeschi.
Il giovane direttore Christoph Lichdi, ben corrisposto dallOrchestra Sinfonica del Tirolo, esordisce con una Sinfonia precisa, ma forse un po scolastica nella relativa povertà del gioco dinamico. Prende quota strada facendo: una lettura vivace ancorché non frizzantissima, improntata a una sostanziale serenità di tono, senza ignorare quegli improvvisi trasalimenti che Lortzing imprime sottotraccia anche nei momenti di letizia. Il palcoscenico schierava apprezzabili professionisti in forza al Landestheater: qualche debolezza, nellambito di una prova comunque dignitosa, veniva dal protagonista Daniel Shay, un baritono così chiaro e leggero da non differenziarsi dal tenorino Brender Gunnell, questultimo molto aggraziato – e anche a suo agio nelle espansioni più liriche – nei panni del vero carpentiere, erroneamente scambiato per Pietro il Grande. A Shay, peraltro, va dato atto di aver cantato nella sua integrità una parte assai composita (il personaggio, a seconda che simmedesimi nella quotidianità del carpentiere o torni a riappropriarsi del titolo di zar, ha toni vocali profondamente diversi). Laria del primo atto, di notevole difficoltà virtuosistica, è spesso omessa nella prassi teatrale: Shay non vi rinuncia e, bene o male, ne viene a capo.
Qualche limite si riscontra anche nellaltro tenore, Ansgar Matthes, nei panni dellambasciatore francese (ruolo di “secondo tenore”, ma solo per la trama: musicalmente la parte è delle più impegnative): annaspa nella tessitura acutissima della sua aria, mentre nelle scene dinsieme ha modo di farsi valere. Simpone invece senza problemi, grazie a mezzi gradevoli e musicalità sicura, il soprano Barbara Pötl; il mezzosoprano Kristina Cosumano è attrice spigliatissima e, per quel poco che ha da cantare, spigliata vocalista; i bassi Marc Kugel (lambasciatore inglese) e Sebastian Kroggel (lambasciatore russo) sono caratteristi sapidi, e anche qualcosa in più. Da sempre però, per il pubblico tedesco, Zar und Zimmermann non sidentifica con il bifronte protagonista, ma con il personaggio del borgomastro, che non a caso Donizetti aveva prescelto per il titolo della sua opera.
Ideale discendente dellOsmin del Ratto dal serraglio e naturale antecedente del barone Ochs del Cavaliere della rosa, Van Bett, borgomastro della cittadina di Sardaam, è una colossale figura di “basso buffo profondo”: basterebbe la Gran Scena della prova per il ricevimento dello zar a farne un ruolo epocale, nella storia dellopera tedesca del diciannovesimo secolo. Con un registro grave poco imponente e acuti spesso fissi, Dirk Aleschus offre una prova che, a un ascolto radiofonico, verrebbe considerata deludente. Ma la corporatura gigantesca unita a una straordinaria frenesia motoria, la mimica irresistibile, la simpatia contagiosa fanno sì che – almeno in palcoscenico – lapplauso più scrosciante sia per lui.