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Zio Vanja, tragico buffone, sulla scena dell’eternità

di Carmelo Alberti
 
Data di pubblicazione su web 06/02/2009  

L’atmosfera di attesa che si avverte nella storica sala del Teatro Carignano di Torino, appena restaurato, rende esplicito l’attaccamento degli spettatori torinesi al loro teatro. Ciascuno si guarda intorno e confronta i particolari con le immagini della propria memoria; ciascuno approva e spera che la crisi economica e l’insania politica non travolgano la vitalità di uno spazio culturale necessario. Poi, sul palcoscenico emergono d’improvviso le sagome dei protagonisti di Zio Vanja, il capolavoro di Anton Cechov, proposto nell’adattamento originale di Gabriele Vacis, che firma anche la regia, e Federico Perrone, prodotto dal Teatro Stabile di Torino e dal Teatro Regionale Alessandrino. Alcuni attori compaiono in carne e ossa, racchiusi entro uno stretto tunnel di teli plasticati e trasparenti che rammenta un acquario, mentre gli altri sono visibili in proiezione, simili ad una schiera di disperati che guardano sgomenti dinanzi a sé.

Fin dalla prima conversazione tra la petulante Balia e il travolgente dottor Astrov affiorano le coordinate spazio-tempo della “commedia” cechoviana che analizza la delusione di vivere. In un afoso pomeriggio d’estate, quando si fatica persino a sorseggiare un the o a buttare giù un bicchierino di vodka, le persone e i fatti del passato sono guardati attraverso la lente di una vita noiosa, sbiadita e volgare. E allora, che può fare un medico di provincia se non coltivare almeno un sogno da sospingere verso il futuro? Purtroppo, a guastare la monotonia di chi è rassegnato a trascorrere inutilmente una stagione dopo l’altra affiora, bruciante, l’incarnazione femminile della bellezza. Il personaggio di Elena s’impone come il reagente del risveglio di sensi fin troppo repressi e di desideri che di lì a poco travolgeranno ogni persona, a cominciare da zio Vanja, la cui quiete s’incendia già nel dichiarare quant’è bella, quant’è stupefacente la seconda moglie del professore Serebrjakov. In una condizione umana statica s’innesta, inaspettatamente, un’azione oscura e insieme traumatica, che finisce per proiettare la rappresentazione verso una nuova condizione di straziante immobilismo. 


La giovane Sonja, fanciulla candida e trepidante d’amore per il dottore, figlia del vecchio studioso venuto dalla città, sarà costretta a compiere una traversata verso la notte che la riconsegnerà alla solitudine di un’attesa tanto vana. Vanja, dopo aver sacrificato la giovinezza a beneficio del cognato, critico d’arte stimato che poteva dare lustro al loro casato e alla sorella che l’aveva sposato, avverte d’improvviso l’inconsistenza del suo idolo: s’affanna allora a distruggerne l’immagine, anzitutto nel suo cuore, mentre è dilaniato dalla bramosia d’amore per Elena. L’utopista Astrov, che lontano dalle miserie e dalle epidemie pianta alberi in una foresta edenica, non riuscirà più a staccarsi dalla casa, preso com’è dal fascino di una donna che reprime – a suo parere – la passionalità giovanile accanto ad un marito decrepito.

La stessa Elena finisce per abbassare la guardia, facendo trapelare le tensioni di un’insoddisfazione prepotente, e ricambia incautamente la sensualità dell’esuberante medico: basterà un bacio, intravisto dal disperato Vanja, per sospingerla ad affrettare la partenza da quel mondo asfittico. Non sono immuni dalle paure della verità neppure i vecchi, vale a dire Serebrjakov, tanto incerto da risultare un intellettuale vacuo, incapace di vedere la realtà che lo circonda, e l’antica madre di Vanja, Maria Vasilievna, fissata nell’ammirazione incondizionata per un professore-simbolo della sua insaziabile sete di leggere (o maneggiare) i libri.

Al pari di altri lavori di Cechov, pure in Zio Vanja personaggi in perenne attesa s’avventano, senza pietà alcuna, contro se stessi e contro i propri familiari a colpi di verità e di rivelazioni; come si dice nel testo, il demone della distruzione si è insinuato in mezzo a un nucleo d’infelici. Eppure nessuno s’illude che qualcosa possa mutare. Anche quando il contrasto, tenuto latente, esplode violento di fronte alla proposta avanzata da Serebrjakòv di vendere la tenuta in cui si trovano, attraverso la rabbia insaziabile di Vanja, che fa tuonare due colpi di revolver, la natura circostante sembra assorbire la trasgressione entro il magma di una calma senza fine. È un’umanità consapevole della propria inerzia, ancora prima che e devastazioni belliche e sociali del Novecento producano la drammaturgia della solitudine alla Samuel Beckett.


Fin dall’inizio dello spettacolo s’avverte quanto Gabriele Vacis abbia investito in una messinscena che manovra una molteplicità di livelli interpretativi. Per il fondatore della fucina del Laboratorio Teatro Settimo è importante aver coinvolto nella prestigiosa impresa d’inaugurare il rinnovato Carignano i suoi più fidati collaboratori. È altrettanto significativo per un artifex come Vacis mantenere alta la linea di una regia aperta; è aperta all’apporto dei suoi attori-personaggi, sollecitati a spezzare l’incanto di un’immedesimazione convenzionale a vantaggio di una personale ricerca della propria “verità” artistica, a costo di farli cadere nella trappola dello smarrimento espressivo. È una regia aperta verso lo spettatore, chiamato in causa di continuo da figure che lo inquietano con i loro insolubili interrogativi; ma è pure un progetto che guarda alla funzione del teatro come crogiolo della consistenza/labilità creativa della parola. Il testo adattato da Vacis si sofferma spesso sull’ambiguità dei significati, affidando ora all’uno, ora all’altro il compito di sottolineare a ridosso della ribalta un catalogo di “pensieri bislacchi”, ripetizioni fonetiche anti-naturalistiche che sminuzzano il testo in un parlato quotidiano, colorazioni grottesche, ridicole auto-confessioni, infantili pretese di illuminare il grigiore della vita con la “verità” dell’amore.

Si apprezza, perciò, moltissimo la circolarità del disegno registico, coadiuvato nella composizione di scene, costumi, luci e scenofonia dalle invenzioni di Roberto Tarasco, che lascia fluttuare sul nudo palcoscenico gli arredi di una casa di campagna, credenze, tavoli, divani e suppellettili, ma anche scheletri di alberi e pareti di tappeti antichi. Ogni movimento, ogni atto impone una duplicità di senso, ponendosi tra la significazione drammaturgica e lo smascheramento della finzione scenica. La recitazione sollecita sovente il riso, come s’addice ad una commedia, ma non esita a scatenare la tragicità di un dramma sul destino che agita, sconforta e commuove.


Vanja è interpretato con convinzione epica da Eugenio Allegri, che si mostra alla stregua di un inquieto tragico buffone mentre grida a perdifiato la voglia di ritrovare un barlume di giovinezza perduta, o rinfaccia l’inutilità del proprio sacrificio, oppure si dispera nel tentativo di consegnare una rosa rossa all’attraente Elena. La sua vocalità si spegne, talvolta, nel deliquio afono di un prigioniero del sentimento immaginato, prima di rimarginare le ferite nella vicinanza della nipote Sonja. Laura Curino si presenta nelle vesti di una balia-testimone dell’inesorabile monotonia di esistere: con misurata amarezza giudica e conforta, interviene e arretra, al pari di un’anima che conosce le leggi del tempo arcaico.

Travolgente e beffardo risulta Michele Di Mauro, il medico ubriacone, libero di progettare le buone pratiche del futuro, che disegna le mappe della devastazione del territorio campestre: è colui che dopo avere strappato impetuosamente un sussulto di passionalità alla bella ospite, non si vuole piegare all’infatuazione dell’adolescente Sonja, preferendo rifugiarsi nella possibilità di continuare a sognare, dopo la morte, nella tomba. La regia associa al suo slancio l’immagine di una carta geografica dell’Africa e i canti tribali di popoli lontani dalle terre russe, nell’attimo stesso in cui la casa si spegne nella ripetizione della contabilità agricola, nel rito di preparare il the e di versare la vodka.

Lucilla Giagnoni sviluppa doverosamente la parte dell’avvenente Elena, perno di  un tentativo di metamorfosi ben presto svanito, risucchiato dal bisogno della città lontana, ambita e, ad un tempo, temuta; l’attrice governa bene il distacco del suo personaggio dal gruppo fino a quando la vampata sopita non rischia di trascinarla nella palude opaca di un mondo al quale non appartiene. Francesca Porrini è davvero brava nel restituire una Sonja delicata, scavata nella mestizia di chi si vede brutta e nella speranza di poter essere corrisposta; Sonja sta dalla parte delle vittime, di quanti sono destinati a soccombere per la gloria di qualcun’altro: e lo esprime con le corde di una voce tanto infantile quanto smarrita. Alessandro Marchetti recita lo smarrimento di Serebrjakov, professore malato e ripiegato su di sé; Laura Panti è Maria, una madre ferma nell’esaltazione della cultura e del contatto continuo con i libri. Completano il cast  Paolo Devecchi come Telèghin e Davide Gozzi come Efim.

Il finale emerge come un lungo addio alla bellezza, al sogno, alla vita, sulla scia di una carrozza che s’allontana, un uccello che gracchia, le sagome di alberi capovolti che scendono dal soffitto, mentre la litania dei conti da controllore, enunciata da Vanja e Sonja, fa da contrappunto alla fissità di personaggi teatrali ingabbiati nella prigione dell’eternità.



Zio Vanja
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