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Europeità della prima opera americana

di Paolo Patrizi
  Una scena dello spettacolo. Foto di Bobo Antic
Data di pubblicazione su web 28/01/2009  

Le Muse di Ancona – nel senso del teatro eponimo, ma anche in quello dell’ispirazione che soffia sui suoi cartelloni – sono favorevoli al Novecento: è significativo come un palcoscenico che ha ripreso a vivere da pochi anni abbia riproposto, in una manciata di stagioni, The Flood di Stravinsky abbinato a L’enfant et les sortilèges di Ravel, l’Henze di Elegy for Young Lovers e l’Hindemith di Neues vom Tage. Ad accrescere il bottino giunge ora The Emperor Jones del polacco-americano Louis Gruenberg (1933): «una delle più straordinarie partiture dei tempi moderni», secondo il giudizio della compositrice Marion Bauer nel suo scritto Twentieth Century Music, pubblicato poco dopo la “prima” newyorkese, nonché – col senno di poi – primo tentativo di dar vita a un’autentica opera lirica statunitense (due anni dopo arriverà Porgy and Bess di Gershwin).

Di tale «straordinaria partitura» oggi resta esile traccia, ma il successo che le arrise non si spiega solo con l’enorme popolarità del testo alla sua radice: l’omonima pièce di Eugene O’Neill, che dal 1920 spopolava sui palcoscenici americani, anche per la novità d’un personaggio di colore interpretato da un autentico nigger, anziché da un bianco con il volto tinto. Tuttavia Gruenberg – intonandone il testo, con qualche taglio, tredici anni dopo – rinunciò in parte alla forza eversiva del messaggio politico (l’ascesa sociale, e poi la caduta, di un ex schiavo negro più razzista di un bianco), né azzardò, al contrario di O’Neill, la scelta d’un artista di razza africana (anzi: la fama del baritono Lawrence Tibbett, divo del Metropolitan e protagonista designato, fu aprioristica garanzia di cassetta). Preferì, insomma, lavorare sul “linguaggio” piuttosto che sul “messaggio”, elaborando una partitura sapientemente a metà strada tra avanguardie europee e folklorismi afroamericani (l’uso delle percussioni, tutt’altro che naïf, svolge un preciso ruolo drammaturgico-musicale) ed evidenziando quel “primitivismo espressionista” che, più della polemica antiborghese contro un’America di spirito ancora coloniale, è oggi l’aspetto più avvincente del teatro di O’Neill.




 

Una scena dello spettacolo. Foto di Bobo Antic
Una scena dello spettacolo. Foto di Bobo Antic


 



Ne sortisce un lavoro che, se può definirsi la prima opera statunitense, è più europeo di quanto sembri, e non solo perché al successo della “prima” contribuì la direzione di Tullio Serafin. Non è difficile cogliere, in questa vicenda di uno straniero che instaura un regime di terrore in una terra primitiva, echi del Kipling dell’Uomo che volle farsi re o del Conrad (anglofono di origine polacca, come Gruenberg) di Cuore di tenebra. E anche se quella pallottola d’argento con cui il protagonista si toglie la vita – morendo in grande stile, come recita l’ultima battuta – è frutto della fantasia di O’Neill, è probabile che Gruenberg pensasse a un altro polacco, morto nello stesso modo: il preromantico e giacobino Jan Potocki, autore del visionario Manoscritto trovato a Saragozza, che passò gli ultimi giorni della propria vita limando la palla d’argento del coperchio di una teiera. Raggiunte le giuste dimensioni l’introdusse nella canna della pistola, facendosi saltare le cervella.

In questa prospettiva non è stato peregrino affidare lo spettacolo a un regista apparentemente “fuori tema” come Henning Brockhaus, che rilegge con proprie lenti esterne il Nuovo Mondo raccontato da O’Neill e ricorre a scene tendenzialmente astratte, in dialettica felicemente ossimorica con i costumi coloratissimi e realistici. Se a questa messinscena manca qualcosa è, semmai, quel senso di circolarità insito nel testo (il protagonista perde l’orientamento durante la fuga, per poi scoprire di essere tornato al punto di partenza, in braccio ai suoi inseguitori), qui minimizzato a favore di una “orizzontalità” narrativa, quasi a voler scandire le varie scene del fuggiasco come il percorso di una via crucis. Inoltre si ha come l’impressione che il pur valentissimo protagonista Nmon Ford, emergente baritono di colore che ha già ottenuto apprezzabili esiti in campo wagneriano, abbia in qualche modo fatto virare lo spettacolo verso una dimensione estetizzante che non era quella di Brockhaus: troppo giovane, troppo atletico, troppo palestrato per un personaggio che il testo descrive come un uomo alto e forte, ma di mezza età, e che come Macbeth ha il coraggio dell’assassino, ma conosce la stanchezza e la paura.

Detto questo, non si può non restare ammirati davanti alla scioltezza con cui Ford fronteggia una scrittura vocale che risulterebbe impervia alle laringi più robuste: chiamata a galleggiare su un’orchestra spesso voluminosa e caratterizzata da una tessitura mediamente basso-baritonale, ma con bruschi scarti volti a sollecitare il registro acuto. Un ruolo da protagonista mattatore (tolti i primi minuti resta ininterrottamente in scena) che lascia poco spazio agli altri personaggi, peraltro assai brillantemente risolti dal tenore Mark Milhofer – che, nel ruolo del mercante di schiavi, sa come piegare a fini espressivi la propria voce biancastra e penetrante – e dal soprano La Verne Williams, insieme tragica e caricaturale nel breve intervento della vecchia indigena vittima dei soprusi.

Orchestra e coro – quest’ultimo in primo luogo sotto il profilo ritmico – sono chiamati a un cimento oltremodo impegnativo, ed è merito della concertazione di Bruno Bartoletti, le cui benemerenze nell’ambito della musica del Novecento richiederebbe un lungo elenco, aver assicurato loro la debita precisione. Sarebbe invece umanamente arduo chiedere a quest’illustre veterano (classe 1926) quell’energia cinetica pur necessaria a molte pagine della partitura (l’epilogo ha un furore dionisiaco che l’apparenta con l’Elektra straussiana) e un vigore speculare a quello promanato dal protagonista in palcoscenico. L’impressione, insomma, è una diluizione della forza espansiva del materiale sonoro di Gruenberg, laddove in un’opera più “seduta” come l’hindemithiana Neues vom Tage dell’anno scorso Bartoletti poté siglare ancora una prova memorabile. Resta la riconoscenza per una bacchetta che solo in età matura è stata sdoganata tra i grandi maestri, dopo decenni di militanza tra i nominali “bravi professionisti”. E che, dopo più di mezzo secolo trascorso fra teatri italiani e americani, potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa.








The Emperor Jones



cast cast & credits

Una scena dello spettacolo. Foto di Bobo Antic
Una scena dello spettacolo. Foto di Bobo Antic




 
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