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La riuscita edizione di un'opera choc

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 28/01/2009  

Scritta tra il 1931 e il 1933 e rappresentata nel gennaio del ‘34 al Malji di Leningrado (già non più e ben lontana dall’essere di nuovo San Pietroburgo) alla fine di quell’anno, l’opera fu uno choc per la novità musicale non meno che per la violenza interna del rapporto tra musica e drammaturgia. Al sensibile pubblico pietroburghese e immediatamente dopo all’accorto gusto del pubblico reso permeabile dalle sperimentazioni di Mejercold e di Nemirovich Dancenko non era sfuggito nulla delle potenzialità eversive che il giovane Šostakovič aveva tratto dalla riduzione della novella a tutti nota di Nicolaj Leskov. Ma la stretta stalinista era ormai in corso, il realismo socialista di Zdanov alle porte. La famosa ispezione del dittatore ad una delle rappresentazioni moscovite e il successivo immediato attacco all’opera apparso sulla Pravda ne segnarono la sparizione da tutte le scene sovietiche (l’opera continuò il suo cammino su quelle occidentali). Fu sostituita da una più edulcorata versione (Caterina Ismailova) che l’obbediente e forse terrorizzato compositore elaborò in seguito, rinunciando per sempre agli sperimentalismi e conformandosi in qualche modo alle esigenze di un regime di cui fu, a fasi alterne, ancora eroe o vittima. Comunque vivo.
   

L’allestimento in scena all’ Opera Bastille (produzione dell’opera di Amsterdam) che sanziona ancora una volta la rivincita della lady sull’edizione purgata, sembra in qualche modo dar ragione a Stalin: perché il rimaneggiamento della novella di Leskov ad opera del libretto e della musica di Šostakovič, questo “espressionismo astratto” che infrange ogni dialettica realistica, l’assolutezza di un desiderio che conduce la protagonista ad assassinii seriali senza essere affatto condannata dall’autore, la rappresentazione senza scampo della mediocrità maschile, la negatività bestiale del “popolo” che fa da coro erano troppo dirompenti, troppo realmente rivoluzionarie, per non ferire l’intelligenza e i nervi di colui che stava per aprire i gulag e che riassumeva tutta in sé la dittatura del proletariato. E che aveva capito benissimo la provocatorietà della mescolanza dei generi musicali, delle dissonanze, la grandiosità di questa figura femminile assoluta, da respingere in toto, perché il suo assoluto non era solo amoroso, ma era il segno di un dirompente bisogno di libertà.

La riuscita della presente edizione molto deve all’ impeccabile direzione di Hartmund Haenchen (fresco insignito della croce al merito tedesca e sempre più presente anche nei nostri teatri: San Carlo, inaugurazione della stagione cagliaritana etc.). Sotto la sua nitidissima direzione la lucida separazione degli stili sottolinea la ricchezza della partitura senza enfatizzarla, dando piena libertà alla vita scenica, fedelissimo in questo al dettato di Shostakovic che non voleva prevaricazioni. Quanto alla vita scenica la regia di Martin Kusej è suggestiva e chiara, senza essere né memorabile né scioccamente provocatoria. Forse un po’ troppo accentuata (ma in questo sottolineerebbe bene la volontà dell’autore sulla qualità di caratura della protagonista) la differenza di attenzioni tra Caterina e gli altri. In questo comunque certo ispirato dallo splendore fisico e vocale di Eva-Maria Westbroek (già protagonista lo scorso anno di una magnifica prova nel ruolo in titolo della Femme sans ombre a suo agio in ogni passaggio della non facile partitura. Meravigliosa attrice riesce a rendere dalle prime note l’attitudine di un corpo insoddisfatto, di uno spirito soffocato dalla noia, pronto ad esplodere in totale ribellione. L’eros inappagato è già tutto espresso nei primi movimenti (“Ah, non posso più dormire. Proverò. Non posso dormire: è normale, ho dormito tutta la notte”) o nella meravigliosa intuizione scenica della collezione di scarpe cambiate senza sosta né senso. 



Al confronto risultano goffi (ma al di là delle intenzioni) i momenti di passione scatenata, quali quelli degli amplessi con l’efficace ma un po’ troppo pastoso Sergej di Michael König, vittima, purtroppo assieme alla protagonista, di una scena erotica in cui il violento realismo veniva velato da luci stroboscopiche (che sono un po’ come i mutandoni messi ai nudi della Sistina), espediente bruttissimo da un punto di vista visivo e ancor più da un punto di vista di fiducia nelle capacità espressive del corpo umano. Questo disamore, quasi disagio nel trattamento del corpo, domina il quadro finale, il nono (per raggiungere il quale il pubblico è costretto ad un’attesa così lunga da far pensare ad un errore tecnico) quando la schiera dei condannati si trascina nelle gelide lande presiberiane e la tragedia si conclude col tradimento amoroso di Sergej e la vendetta di Katia che uccide la rivale Sonia e annega con lei. Le intenzioni del regista sono chiarissime nel descrivere lo squallore di questa umanità sofferente ma non incolpevole, la resa è di un cattivo gusto che accora. Sola luce, e qui nuovamente le intenzioni prendono la strada di un’espressiva riuscita.


Lettera da Parigi Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Dmitrij Šostakovic



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