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God bless America

di Marco Luceri
  Josh Brolin in "W."
Data di pubblicazione su web 19/01/2009  
«Punire la Francia, ignorare la Germania, perdonare la Russia». Come se si fosse in un Risiko serale tra vecchi amici in qualche bel quartiere di Dallas, Condoleezza Rice da' lezioni di politica estera a un George W. Bush sempre più convinto di avere la situazione sotto controllo. La tragedia di un uomo ridicolo, o la commedia di un uomo serissimo, comincia e finisce in una delle tante passeggiate pomeridiane nel ranch texano di proprietà del 43esimo presidente della più grande potenza del mondo, dove tra un hamburger e un'occhiata ai cagnolini personali, si decidono le sorti del mondo.



Che alla fine non fosse una farsa, e che il tutto fosse anzi tremendamente serio, ce lo ha ricordato un vecchio veterano (forse un po' acciaccato) del cinema americano "impegnato", ovvero mister Oliver Stone, che di potenti della terra se ne intende, se non altro per aver disseminato il suo cinema di ritratti biografici più o meno riusciti, da Jfk a Nixon, fino all'ultimo contestatissimo (in patria, naturalmente) documentario su Fidel Castro. Questo nuovo W., uscito con una tempistica straordinaria a due giorni dal commiato ufficiale e nostalgico del repubblicano e a due giorni dall'investimento del giovane democratico di belle speranze, è un biopic un po' diverso, però, dai precedenti. Vuoi per l'assoluta straordinarietà del personaggio (interpretato con splendida ironia da Josh Brolin), vuoi perché alla fine il film è inaspettatamente l'ennesima variazione sul mito del sogno americano (se anche uno come George W. può diventare presidente, perché tanta meraviglia che non possa farlo un ricco liberal nero democratico cresciuto tra le lobby e finanziato con centinaia di milioni di dollari e più di ogni altro candidato che si ricordi?), W. riflette poco o non quanto ci si aspettasse sulla dimensione pubblica del personaggio, ma su quella intima, che, al di là del già saputo, scopre, come in un vaso di Pandora, parecchi veleni nascosti.



Diviso in tre parti, unite in maniera precaria solo dal alcuni flashback, che non rendono però la narrazione piacevolmente frammentaria, W. indaga sulla vicenda del riscatto morale di un uomo condannato sin dall'inizio a vivere all'ombra di un padre-modello, marito fedele, petroliere di successo, presidente fermo e moderato, ma scarsamente incline alla commiserazione e al perdono. Un uomo tutto d'un pezzo insomma, che si ritrova con un figlio maggiore indesiderato e casinista, sempre alla ricerca di una propria dimensione, ma incapace di trovarla, se non in dannose ragazzate o, ancora peggio, nell'alcool. Solo che a un certo punto, verso l'onorevole età di quarant'anni il piccolo W., già un po' incanutito, decide di giocare le proprie carte da americano vero, aiutato da una conversione religiosa accecante e rigeneratrice, insomma una di quelle cose degli americani che, come le regole del baseball, noi europei non capiremo mai.



Il resto è storia: governatore del Texas, candidato presidente che riesce a vincere con un aiutino di papà in Florida, erettosi a comandante in capo dell'Occidente esportatore di democrazia attraverso la formula della guerra preventiva (applaudita, ricordiamolo, in pompa magna, anche dai maggiorenti democratici, da Ted Kennedy a Hillary Clinton), che se non fosse tragica realtà sarebbe una delle trovate drammaturgiche più comiche dai tempi del Signor Puntila (Brecht) e del Dottor Stranamore (Kubrick). Sulla mediocrità dei personaggi di contorno c'è poco da dire, si salva solo Colin Powell, ma tutto il tono del film è giocato su questa corsa al ridicolo, sul gioco a ribasso della mediocrità, compresa la ributtante bestialità di uomini e donne che mangiano in continuazione cibo grasso e oleoso e che masticano, ingoiano, rigurgitano. Ampio spazio alla caricatura, dunque, ai limiti della macchietta, ma che non riesce a risultare fastidiosa, forse perché Stone ci consegna immagini che la nostra mente ha già elaborato tante volte in questi otto lunghi anni di menzogne e approssimazioni.

Ecco perché in realtà al film si possono anche perdonare l'assenza di ritmo, lo scollamento tra le parti, un certo didascalismo, l'approssimazione di certi dialoghi e il mancato approfondimento sulle pur importanti figure femminili, ritratte come cagnolini al seguito del padrone (soprattutto le due first ladies, la cotonata Barbara e la saputella Laura). Perché in questa sorta di iperrealismo da McDonald's c'è tutta la tragedia del ridicolo di chi è stato chiamato a essere molto più di quanto egli stesso non avrebbe neppure immaginato. Di chi, cioè, alla domanda «Che posto avrà nella storia, signor Presidente?» risponde con: «Mah, ecco, nella storia saremo tutti morti!». Mai battuta fu più felice. Amen.

W.
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