Se cè un drammaturgo poco congeniale al lessico del teatro dopera, questi è August Strindberg: lidea di unità dazione obbediente alle pure vicende interiori del protagonista – fondamentale puntello estetico dello scrittore svedese – è, in fondo, quanto di più lontano ci sia da quellevolversi diacronico di una vicenda oggettiva che, da Monteverdi a Henze, rappresenta caratteristica ineludibile della drammaturgia operistica. Vero è che librettisti e compositori si sono accostati, da tempo, a dimensioni antinarrative: ma proprio perché il teatro dopera è andato gradualmente trasformandosi in teatro musicale tout court. Sta di fatto però che – complice la sua intelaiatura apparentemente naturalistica – La signorina Giulia è un testo capace di sollecitare ripetutamente lattenzione dei drammaturghi della parola cantata: così, dopo ladattamento operistico fattone nel 1975 da Antonio Bibalo (triestino naturalizzato norvegese, dunque in sintonia tanto con gli umori mitteleuropei quanto con quelli scandinavi del testo strindberghiano), eccone ora la versione intonata dal belga Philippe Boesmans, classe 1936. A presentarla in “prima italiana” – dopo il debutto a Bruxelles quattro anni fa e le successive riprese in Francia e Gran Bretagna – è il Comunale di Bolzano, teatro che ha trovato la propria fisionomia nel proporre novità altrimenti invedibili sui nostri palcoscenici.
Boesmans, tuttavia, non raccoglie quelle sollecitazioni del testo che avrebbero offerto il destro a una composizione “sperimentale”: aiutato dal solido libretto di Luc Bondy (che a Bruxelles curò la regia dello spettacolo) e Marie-Louise Bischofberger, realizza unintelligente operazione di recupero del metodo di approccio della vecchia tradizione operistica – quando di un testo letterario si utilizzava, semplificandolo, solo quanto funzionale al proprio adattamento – e riduce La signorina Giulia a un “semplice”, crudo dramma verista, sfumando su quei grovigli psicanalitici che nel 1888 assicurarono scandalo e forza dirompente alla pièce, ma oggi appaiono abbondantemente metabolizzati, se non datati. Il risultato è un lavoro di rimarchevole impatto drammatico (soprattutto nella parte centrale), debitamente sintetico (unora e un quarto), lontano da tentazioni avanguardistiche, forse più abile che ispirato, con una scrittura che punta sullindagine ritmico-timbrica (in organico troviamo pure un pianoforte e una celesta, oltre a un sintetizzatore) piuttosto che su quella armonica. La vocalità, invece, si affida a uno sprechgesang a tratti un po prevedibile per le parti della protagonista (mezzosoprano) e del servo Jean (baritono), mentre al personaggio della cuoca – che qui assume una valenza deuteragonistica poco presente in Strindberg – vengono affidate le rare espansioni cantabili, oltre a lunghi passi vocalizzati in registro di soprano leggero.
Una scena dello spettacolo. Foto di Franco Tutino
Insomma non un capolavoro, ma unopera che – complice la sua struttura economica a tre soli personaggi – potrebbe trovare spazio non episodico nei cartelloni dei teatri, e anche nelle simpatie del pubblico. A Bolzano ci hanno creduto al punto di approntare un nuovo allestimento e un doppio cast, dove ai nomi più noti della prima compagnia seguivano, nella seconda locandina, dei giovani perfezionatisi nellAccademia musicale del teatro altoatesino. La recita di cui si dà conto schierava questi ultimi, rivelandone la notevole duttilità scenico-vocale e, in definitiva, la già cospicua maturità di artisti: con una voce per natura non ricca di colori, ma molto contrastata negli accenti, la protagonista Marlene Lichtenberg ha un canto che trascolora dallesaltazione nevrotica alla rarefazione; Martina Bortolotti appare precisa, musicale e intonatissima, come dimostrano i suoi interventi “a cappella”; Timothy Sharp, voce baritonale chiara ma sostanziosa, è dei tre quello che più si desidererebbe riascoltare in qualche titolo di repertorio.
Sul podio della giovane orchestra, frutto anchessa dellAccademia, la portoghese Joana Carneiro, il cui gesto – chiaro e senza fronzoli – attribuisce allinsieme uninfallibile precisione ritmica e un dialogo voci-strumenti senza sbavature. La regia di Manfred Schweigkofler ne fa un ulteriore personaggio, collocando gli strumentisti in palcoscenico, a sancire il ruolo di motore dellazione che, nel lavoro di Boesmans, riveste la musica. Per il resto una messinscena semplicissima, altamente allusiva: la pedana sghemba su cui agiscono i personaggi si direbbe speculare ai loro equilibrismi psicologici; la minacciosa presenza-assenza del conte viene evocata dai suoi stivali al proscenio; una serie di betulle rimandano alla matrice nordica del testo di Strindberg. E certe trovate che potrebbero sembrare una deminutio della disperazione strindberghiana (lerotismo tra Julie e Jean viene risolto in modo poco morboso e molto carnale, mentre luccisione del fringuellino, qui tagliato comicamente a fette, rimanda più a una scena surreale da cartone animato che a un teatro della crudeltà) appaiono tuttaltro che fuori luogo: sono in linea con il lavoro di semplificazione operato da Boesmans.
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Julie
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Una scena dello spettacolo. Foto di Franco Tutino
Una scena dello spettacolo. Foto di Franco Tutino
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