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Il sindaco
di Stefano Massini

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Data di pubblicazione su web 30/12/2008  

Il signor Sindaco è davanti a me.
In piedi.
Ben vestito.
Non c’è che dire: un signor Sindaco elegante.
Cappello borsalino puro.
Un completo grigio.
Forse firmato. Potrebbe, chissà.
La cravatta blu.
Blu oltremare.
Di un certo gusto.
Fazzoletto nel taschino, fuoriesce con pudore.
Anch’esso blu, come la cravatta.
Le scarpe belle lucide.
Come fa ad averle così lucide?
Cappotto scuro.
Un po’ bagnato di pioggia.
La tesa del cappello anche: umida.
Un minimo di condensa sugli occhiali.
Ma dietro le lenti spiccano gli occhi blu.
Abbinati alla cravatta.
E al fazzoletto.
Fanno pendant.
 

Mi porge la mano, il signor Sindaco.
Cordialmente.
Con un sorriso.
Mi è venuto incontro, alle porte della città.
In questo parcheggio di periferia.
Io qui che lo aspetto, per l’intervista.
Mi aveva detto “ci vediamo a mezzogiorno”.
E infatti eccolo.
Lo riconosco appena arriva.
Guardo l’orologio:
mezzogiorno in punto.
Meno male.

Mi aveva sorriso già da lontano.
Fatto un cenno con la mano, come dire “benvenuta”.
Poi eccolo: più vicino.
Lo metto a fuoco.
Sorride di nuovo.
Chiude l’ombrello.
Sorride ancora.
Non sorriderà un po’ troppo?
Tant’è: mi porge la mano.
Si presenta “Sono il signor Sindaco, io in persona.”
E sorride.
Gli stringo la mano?
Ma sì.
Lui sorride.
“Piacere di conoscerla, signor Sindaco.”
“Piacere mio”.
“Brutto tempo oggi”.
“Domani sarà meglio”.
“Questa intervista?”
“Facciamola.”
“Le tolgo tempo?”
“Tempo? Ne ho talmente tanto.”
“Allora andiamo?”
“Mi fa piacere”
E sorride.

Faccio caso che il cappello
gli sta infilato stretto
sulle tempie, brizzolate.
Lo porta basso, sulla fronte.
Subito sopra gli occhiali.
Ogni volta che sorride
gli si alzano le sopracciglia come un pagliaccio,
e gli si schiacciano fra occhiali e cappello.
Sì: quel borsalino gli fascia la testa.
Ci giuro che quando se lo toglie, resterà il segno.

Mi guarda con quel suo sorriso fisso in viso.
Sembra un tipo tranquillo, il signor Sindaco.
Come se niente lo riguardasse.
Nemmeno la pioggia.
Nemmeno la bruttezza di questo parcheggio
che – sinceramente – un po’ di tristezza la fa.

Mi chiede
“Di cosa vuole parlare?”
e io subito
“Della vostra città”.
Il signor Sindaco fa la faccia di uno che ha l’asso nella manica.
Mi prende per un braccio: “Allora guardi qui”…
Mi fa camminare un centinaio di metri
verso una balaustra
e senza che l’avessi sospettato
mi fa vedere il panorama.
Tutta la città, dall’alto: stesa ai nostri piedi.

Vedo correre gli autobus.

La gente che aspetta alle fermate.
Chi stende i panni.
Le terrazze coi fiori.
Piazze con automobili.
Una ferrovia.
Un mercato di quartiere pieno di gente, zeppo di ombrelli.
Un alveare. Pieno di api, tutte al lavoro.

Mi viene una specie di urlo di sorpresa:
“È grande questa città!”

E il signor Sindaco:
“Abbiamo raggiunto i centomila abitanti, lo sa?
Fra poco potremo diventare una provincia!
La città è nata nel 1950,
subito dopo la guerra!
E in 60 anni ne abbiamo fatta di strada!

Mi soffermo a guardare:
case di ogni tipo, villette, condomini, palazzi.
Campanili di chiese. E c’è pure la mezza luna di una moschea…
“In questa nostra città c’è un po’ di tutto, sa?
Cattolici, ebrei, protestanti.
E musulmani, poi: ne abbiamo tanti. Tantissimi, anzi.”

Prendo carta e penna per segnarmi qualche appunto,
almeno l’intervista prende forma.
 

“Abbiamo i musulmani perché muratori e operai
sono quasi tutti immigrati.
E di muratori e d’operai la città è piena:
è uno dei lavori più diffusi quaggiù.”

Mentre il signor Sindaco parla, io segno tutto.
“E poi? Quali altri mestieri avete in città?”
 

“Di tutto, signora mia, c’è di tutto.
Ci sono i tagliaboschi. I pompieri.
Si figuri, di tagliaboschi ne abbiamo quasi diecimila.
E pescatori, anche. Di quelli ne abbiamo un quartiere intero.
E autotrasportatori! Quasi quindicimila.
I minatori sono qualche migliaio: stanno tutti là sotto la collina.”

Mentre scrivo continua a piovere a dirotto.
Mi proteggo come posso sotto l’ombrello del signor Sindaco
che mentre parla continua a sorridere,
come se nulla lo riguardasse da vicino.
Nemmeno la pioggia.
Nemmeno quelle folle di persone
che vedo brulicare giù in città come formiche
e che un po’ di preoccupazione la mettono.

“Ma lei, signor Sindaco, che storia ha?
Com’è diventato Sindaco di questa città?”

Lì per lì non mi risponde.
Mi fissa con quegli occhi che fanno pendant con la cravatta.
Poi d’un tratto toglie via il cappello.
Quello che gli stava infilato su in testa.
Abbassa un po’ le spalle
e voilà:
il cranio è mezzo aperto.
Spaccato.
Come una zucca con un colpo di vanga.
Un vaso rotto. Che non si riattacca.
Fracassato.
“Sono volato di sotto da un’impalcatura di dodici metri.
Urto micidiale contro una carriola.
La testa in frantumi.
Sono morto sul colpo.
Dieci anni fa.
Mi hanno eletto Sindaco appena arrivato.
Il mio vicesindaco era guardiano notturno di una fabbrica:
precipitato dentro l’acido solforico
perché si erano rotte le segnalazioni.
E poi c’è l’assessore ai trasporti:
morì fulminato da una linea elettrica.
L’assessore al bilancio finì stritolato in una morsa.
Quello della pubblica istruzione crollò giù da un pilone dell’autostrada.”

“Che futuro prevede, signor Sindaco?”
 

“La Città dei Morti Bianchi crescerà!
Cresceremo, sì, ancora.
E questa è solo la Città dei Morti Bianchi italiani:
gliel’ho detto, siamo centomila dal 1950.
Ma ora come ora lo sa di quanto aumentiamo?
Mille e trecento abitanti in più ogni anno!
Non c’è al mondo una città che cresca più di noi!
Lo vede quel quartiere in costruzione?
Quei condomini, laggiù, a sei piani?
Li stiamo tirando su perché non teniamo testa alle richieste!
C’è gente sempre nuova, in arrivo.
Presto, mi creda, saremo una metropoli!
Costruiremo una tramvia.
E un museo. E una teleferica!”
 

Si entusiasma, il signor Sindaco.
Guarda il panorama della sua Città dei Morti Bianchi.
In continuo aumento.
E sorride.
Perché ormai nulla lo riguarda.
Né la pioggia.
Né quella folla di gente che ammassa le strade.
È stracerto che sarà una grande annata.
In quel preciso istante
sento uno sferragliare di rotaie:
proprio sotto di noi corre un convoglio ferroviario.
Rallenta, stride, si ferma poco più avanti.
C’è scritto Stazione.
Si spalancano le portiere.
Armati di bagagli, scendono dal treno i nuovi arrivati.
Saranno qualche decina.
“Mi perdoni” sorride il signor Sindaco “devo andare a dare il benvenuto”.
E scappa via.
Correndo.

La piccola folla sui binari
si guarda attorno spaesata.
Dovranno cercarsi una casa.
Trovarsi un mestiere.
Un mestiere per vivere, sì.
O chissà: magari per morire.
Un’altra volta? 
















 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 






 
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