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Il cinema della crisi
di Cristina Jandelli


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  "Gomorra" di Matteo Garrone
Data di pubblicazione su web 09/12/2008  
La storia del cinema insegna che i momenti di grave crisi sono segnati da risposte assai differenti da parte delle forme di rappresentazione più significative dell’epoca in cui essi si rispecchiano; le risposte variano, ma si rivelano tutte ugualmente sintomatiche.

Il paragone della situazione attuale con il crollo della Borsa di New York nel 1929 è pressante e viene accampato oggi da tutti i mezzi di informazione (chi marca le differenze e chi le similitudini, ma nessuno si esime dal confronto). La Grande Depressione apre gli anni trenta del Novecento segnati dalla presenza pervasiva del cinema hollywoodiano in ogni paese occidentale. Solo in un primo tempo la crisi economica causò la diminuzione della domanda di uno svago, come quello cinematografico, sostanzialmente a buon mercato: dopo una prima, sintomatica flessione di spettatori, la strategia produttiva di Hollywood, all’epoca di Roosevelt, fece conquistare allo spettacolo cinematografico uno spazio e una rilevanza, anche politico-ideologica, prima sconosciute. C’è una frase del presidente americano straordinariamente eloquente in proposito, pronunciata in un momento di profondo impoverimento e di disoccupazione endemica: «È una cosa stupenda che per soli quindici centesimi un americano possa andare al cinema e vedere il volto sorridente di Shirley Temple».

Per l’industria cinematografica hollywoodiana l’epoca della Depressione coincise con uno straordinario sviluppo che contribuì a rafforzare e ridefinire gli equilibri dell’oligopolio produttivo (majors e minors) già delineato nel decennio precedente. L’introduzione del sonoro segnò infatti una nuova fase storica per il cinema, ufficialmente inaugurata con l’uscita americana di The Jazz Singer (Il cantante di jazz di Alan Crosland), il 6 ottobre 1927. Nel giro di un quinquennio l’intera industria si ristrutturò affidandosi alla nuova tecnologia: nel 1932 la riconversione delle sale sul territorio americano con impianti per la riproduzione del sonoro era quasi completata. Finiva un’epoca e ne iniziava un’altra dominata da due generi cinematografici: musical e commedia. L’evasione dalla realtà è ciò che Hollywood profonde su una popolazione violentemente segnata dalla mancanza di occupazione e da una perdita generalizzata del potere d’acquisto. Hollywood fa sua la politica del New Deal proponendo un "nuovo contratto" con il pubblico americano basato sui valori tradizionali della famiglia, della moralità pubblica e della speranza sociale (il New Deal in breve tempo sanò la crisi americana riassorbendo la disoccupazione e rimettendo in moto la macchina produttiva del paese).

Gli schermi americani appaiono così illuminati da creature di sogno che danzano sulle note paradisiache di Heaven e da bambine prodigio nella cui studiata innocenza il pubblico si identifica almeno quanto nel sogno ammaliante di coreografie e canzoni rese celebri anche dalla radio: il cinema hollywoodiano dell’epoca concede, per pochi centesimi, la fuga in mondi illusori dorati, dominati da star sempre più seducenti che, fuori e dentro lo schermo, le strutture di potere pongono al servizio dell’ideologia rooseveltiana.

Il male sociale si cura dunque, negli anni della Grande Depressione, con l’illusione e con la fuga dalla realtà, sia pure nel breve spazio concesso alla proiezione di un film: gli schermi riproducono non il mondo – misero e incerto – qual è, ma quale nel desiderio collettivo si vorrebbe che fosse. L’investimento sui nuovi ideali che la nazione elegge come salvifici trova nel cinema una cassa di risonanza in perfetta sintonia con le scelte del potere democratico: le commedie di Frank Capra vengono elette a sistema nel quale l’ideologia dell’ottimismo rooseveltiano si specchia e amplifica le proprie suggestioni.

Di segno esattamente contrario la ricetta italiana alla crisi più insanabile del "secolo breve" segnato dall’immane catastrofe della seconda guerra mondiale. Questa volta si tratta di ripartire dall’azzeramento delle strutture industriali e dall’utopia di una rifondazione nazionale strutturata su nuove basi morali: la solidarietà è l’unico mezzo di riscatto che il cinema sceglie di indicare a un’umanità che ha smarrito tutto, ma più del resto la fede e la speranza nel futuro. I film del neorealismo italiano, per pochissimi anni (dal 1945 al 1948), rivoluzionano dal profondo i codici del cinema classico appena descritto. Simbolicamente il cinema, attraverso uno dei suoi protagonisti, il piccolo Edmund di Germania anno zero di Rossellini (1948), si pulisce gli occhi, se li strofina un attimo prima di gettarsi nel baratro. Ritrovare uno sguardo vergine sul mondo significa, per i registi del neorealismo, mostrare la realtà rimasta sepolta sotto le consolatorie illusioni hollywoodiane: ecco che gli schermi si animano di volti e luoghi "veri", facce segnate dalla povertà e dalla fame, città devastate dai bombardamenti, relazioni sociali sconvolte dal conflitto e voci impastate nei dialetti soppressi dall’ideologia fascista nelle varie forme di spettacolo, dal cinema al teatro e alla radio. Tutto ciò che è stato sospinto ai margini della rappresentazione entra prepotentemente in gioco e il cinema rigenera i suoi codici, formali ed estetici. La narrazione prelevata dalla cronaca, abilmente impastata di finzione e documentazione sociale, istituisce il finale aperto che troverà applicazione dominante solo negli anni sessanta: prendono campo le azioni minime, le storie rimangono sospese, libere di lasciarsi leggere e interpretare da spettatori che si vogliono vigili, attenti, non più passivamente sedotti dallo spettacolo cinematografico. È una rivoluzione che non può lasciare indifferente neanche l’unica realtà produttiva rimasta saldamente ancorata alle proprie tradizioni, come appunto quella hollywoodiana, neanche sfiorata dalla crisi che ha messo in ginocchio tutte le realtà produttive europee. Solo così si spiega la scelta della massima star americana del periodo, Ingrid Bergman, di trasferirsi in Italia per stringere un sodalizio prima artistico e poi anche sentimentale, ma fino all’ultimo cinematograficamente produttivo, con il principale rappresentante del neorealismo, Roberto Rossellini.

La crisi economica attuale – si dice recessione ma si legge depressione - investe il mondo globalizzato in un’epoca che vede il cinema in posizione non più egemonica e dominante, come negli anni fin qui raccontati. Lo spettacolo cinematografico è oggi solo uno dei molteplici mezzi di comunicazione interconnessi fra loro, e non certo quello in grado di influenzare maggiormente le risposte sociali. Televisioni e Internet detengono un potere di comunicazione assai più incisivo e diffuso, nessuna ideologia della ricostruzione può dunque strategicamente prescindervi.

Confinato ai margini del consumo audiovisivo, mai così massiccio come nella nostra epoca, il cinema denuncia in ogni caso da tempo i sintomi di un malessere che si è rivelato in tutto il suo potere destabilizzante fino dal settembre 2001, quando è andata in onda una realtà inimmaginabile, la distruzione delle Torri Gemelle sotto forma di rappresentazione audiovisiva planetaria. Non è quasi più possibile, ormai, distinguere la realtà dalle sue molteplici rappresentazioni, come il cinema hollywoodiano mostra nel proliferare di immagini di sintesi – digitali - prive di qualsiasi punto di contatto con il reale. L’immaginario cinematografico si traduce oggi in immaginazione libera da qualsiasi vincolo di verosimiglianza: ma dal 2001 il genere hollywoodiano che meglio sottintende una forte relazione con lo spettacolo della destabilizzazione planetaria, come già negli anni settanta solcati da un’altra crisi economica epocale, si rivela l’horror che prolifera in tutte le sue più violente e parossistiche declinazioni.

Anche il cinema italiano, nel suo piccolo (ma resta pur sempre, insieme a quello francese, la maggiore espressione della cultura audiovisiva europea), fin dall’inizio del nuovo secolo continua a fare i conti con inquietanti e inconsapevoli mostri. Lo spettacolo del mostruoso va in scena nei film dei maggiori autori contemporanei, drappello guidato dai blasonati Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Nella loro galleria umana la mostruosità si agita sottopelle come una covata malefica, quasi indistinguibile dal volto strisciante della normalità: tassidermisti camorristi, puristi dell’anoressia, tristi mafiosi eroinomani in doppiopetto griffato, usurai mefistofelici e, in ultimo, il grande affresco sanguinario di Gomorra e quello ugualmente "nero" dell’ultimo governo Andreotti (Il divo). Nelle commedie i giovani urlano: "Non siamo come voi!", riferendosi a una generazione al potere mai apparsa così proterva e tracotante. Non è il sonno della ragione a generare questi mostri, ma una realtà mostruosa che li rigurgita: incubi e incunaboli della crisi.





 
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