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Tra Polanski e Mel Brooks

di Paolo Patrizi
  una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 26/11/2008  
Territorio ancora vergine per teatri e melomani di casa nostra, che si limitano al Franco cacciatore e poco altro, la romantische Oper prewagneriana potrebbe, negli anni a venire, prendere il posto della “belcanto renaissance”: entrato ormai nel lessico familiare il Rossini “serio”, sottratti al limbo delle rarità i Bellini e i Donizetti pseudominori, l’interesse sembra lentamente spostarsi (e sul piano della saggistica alcuni contributi sono già arrivati) verso quel repertorio, parallelo ai tre geni italiani ora citati, che prendeva forma in Germania tra la seconda metà degli anni Dieci e la prima metà degli anni Trenta dell’Ottocento. Designato ad aprire la stagione del Comunale di Bologna, Der Vampyr di Marschner (1828) rappresenta un tassello fondamentale nell’economia di un mosaico ancora in gran parte da ricostruire (le due esecuzioni alla radio italiana nel 1953 e 1980 non ebbero particolare eco); e tuttavia, pur nella gratitudine verso il teatro felsineo per una così intrigante riproposta, ritirando i cappotti al guardaroba l’impressione è quella di un’occasione parzialmente perduta.

Roberto Abbado ricava il meglio dall’orchestra del Comunale, quanto a precisione e pulizia: limpidezza fonica e appiombo tra buca e palcoscenico sono quelli delle serate migliori. Manca però, sotto il profilo dinamico e timbrico, quel suono romantico e demoniaco che per un’opera del genere – a cominciare dalla sinfonia e proseguendo, all’alzarsi del sipario, con un coro di «streghe e spiriti» che ci porta subito in medias res – dovrebbe essere ineludibile biglietto da visita. Abbado sembra invece perseguire la strada di un nitido classicismo che, sulla distanza, si traduce in asepsi: l’elemento gotico e stürmisch resta relegato ai margini del discorso e l’aspetto umoristico e popolaresco, che nel secondo atto acquista valenza di componente strutturale ben al di là della mera nota di colore (il quartetto dei bevitori è una delle pagine più vitali dell’opera), appare più che altro un esercizio di stile. Si direbbe che il direttore abbia una fiducia solo relativa nell’estetica marschneriana e il fatto di aver proposto la partitura non nella versione originale, ma nella revisione curata (e qua e là sforbiciata) quasi un secolo più tardi da Hans Pfitzner, parrebbe confermarlo. Un ulteriore innesto rispetto all’Ur-Vampyr è poi la seconda parte dell’aria del tenore, composta da Wagner – non nuovo a rimettere le mani nelle musiche degli autori che amava – cinque anni dopo la “prima”. Ma questo, conveniamone, ha rappresentato uno dei motivi di maggior interesse della serata, anche grazie all’alto valore musicale della protesi wagneriana.

Anche la scelta del cast dà l’idea di suoni in difetto di corposità: un baritono lirico come Detlef Roth in un ruolo – quello del vampiro eponimo – che pretende ben altro tonnellaggio canoro, per fronteggiare la tempesta strumentale che accompagna i suoi grandi momenti solistici; un tenore rossiniano come John Osborn, versato nel canto di coloratura “di grazia” e capace di giocare le proprie carte migliori in zona acuta, impegnato in una parte che richiederebbe invece un robusto registro centrale e – nell’aria wagneriana di cui si diceva – qualche occasionale agilità di forza; tre soprani (le vittime designate del vampiro, anche se, in omaggio all’happy end, solo due faranno una brutta fine) di valore alterno, senza però che nessuna, quanto a colore e volume, possa dirsi baciata dalla natura. Tuttavia la duttilità vocale di Osborn, e anche la scioltezza interpretativa con cui affronta un ruolo drammaturgicamente laconico e irrisolto, assicura al tenore un trionfo meritato, laddove Roth – sebbene la palese cattiva forma con cui ha affrontato la “prima” imponga un giudizio non definitivo – appare davvero impari ai desiderata del personaggio.

Fra i tre soprani, Manuela Bisceglie ha qualche occasionale suono stridulo e la bellezza fisica – davvero botticelliana – di Donata D’Annunzio Lombardi è inversamente proporzionale alla bellezza della voce. L’una e l’altra, però, sono interpreti assai compenetrate, laddove Carmela Remigio appare più generica, negli abbandoni sentimentali come negli slanci (ma è anche il suo personaggio ad essere il meno interessante). Tra gli altri caratteri che arricchiscono la dramatis personae hanno rilievo i due bassi, entrambi in un ruolo di padre. Il primo è un papà preoccupatissimo che la figlia faccia un matrimonio come si deve, ovvero che il promesso sposo abbia un buon portafogli. Si tratta di un topos ricorrente nell’opera tedesca, da Rocco del Fidelio a Daland dell’Olandese volante, ma siamo lontani dalla bonarietà di quei due personaggi: la venalità ottusa e violenta fa di Sir Humphrey una specie di mostro, più ripugnante del vampiro stesso, e Harry Peeters sa raffigurarlo con odiosa imponenza. L’altro è una sorta di epigono del Commendatore mozartiano, che si scaglia armato contro il seduttore – nonché assassino, a seguito di canonico morso sul collo – della figlia (al contrario di Don Giovanni qui sarà il reo a venire trafitto, salvo però resuscitare vampirescamente subito dopo): Roberto Tagliavini lo incarna con buona voce, ma pure con una placida inerzia di accento che rende la situazione alquanto improbabile. Molto valido, per amalgama prima ancora che per individualità vocali, il poker di ubriaconi formato da Thomas Morris, Mario Bolognesi, Gabriele Ribis e Conal Coad.

Pier Luigi Pizzi firma uno spettacolo poco convincente. Der Vampyr pone a un regista non pochi problemi: la musica riveste di un’atmosfera inequivocabilmente germanica la Scozia descritta nel libretto; l’unità di tempo che caratterizza la vicenda – da mezzanotte a mezzanotte – viene contraddetta da un’atmosfera perennemente dark, che non giova alla percezione dello scorrere delle ore della giornata; e il fatto che le tre vittime del vampiro non compaiano mai insieme in palcoscenico, neppure due a due, instilla un senso d’incompiutezza drammaturgica. Pizzi cerca di aggirare gli ostacoli ricorrendo a un’ambientazione tra il moderno e il senza tempo, nonché premendo il pedale dell’ironia smitizzante. Ma se l’idea era un divertissement da servire a freddo – diciamo l’equivalente di quel che, per i vampiri cinematografici, è Per favore non mordermi sul collo di Polanski – qualcosa gli sfugge di mano: certe “trovate” che vorrebbero essere moderne (le danze nuziali trasformate in un twist anni Sessanta, il vampiro che per sottolineare i propri appetiti fa boccacce in stile cartone animato) risultano solo parodistiche, e più che a Polanski sembrano occhieggiare al Dracula di Mel Brooks. Né la cultura figurativa consente a Pizzi di approdare a una chiave di regia: l’esplicita citazione, nel primo quadro, di L’origine du monde di Courbet (un corpo nudo di donna in posizione ginecologica) resta fine a se stessa, e che l’antro del vampiro coincida con il sesso femminile rimane, appunto, una trovata, senza che si possa parlare di vero pensiero registico.

Vengono invece realizzati con scioltezza, grazie anche ad alcuni tagli, i numerosi inserti parlati dell’opera (Der Vampyr obbedisce ancora all’antica, e nel 1828 ormai prossima ad esaurirsi, struttura del Singspiel). E sia lode pure al bravo attore Karl Heinz Macek, nel ruolo – solo recitato – del Capo dei Vampiri.
 




Der Vampyr di Heinrich August Marschner
recensione di Paolo Patrizi



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