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Capolavoro d'attore

di Giulia Tellini
  Sandro Lombardi
Data di pubblicazione su web 31/05/2008  
«Perché ho dedicato tanti anni di vita e di lavoro a Giovanni Testori? Perché è uno di quegli autori (Čechov, Brecht, Beckett, Bernhard) che in questo momento sento più identificati con questa idea: "stanano" gli attori, li costringono a tirar fuori tutto di sé. Certo, impongono una fatica doppia, ma il risultato, al di là della resa interpretativa, è una conoscenza di sé che oltrepassa l'ambito della professione»: così si legge nell'articolo di Sandro Lombardi pubblicato sul programma di sala dell'Erodiàs di Testori che, parte integrante del Maggio Musicale Fiorentino 2008, è andato in scena nel Cortile del Bargello di Firenze a partire dalla sera del 13 maggio. Come era accaduto l'anno scorso, quando la Compagnia Lombardi-Tiezzi, sempre nello stesso Cortile, aveva proposto il dannunziano Sogno di un mattino di primavera in occasione della Mostra di Desiderio da Settignano, anche questa volta lo spettacolo è tematicamente collegato a una mostra allestita nel Museo del Bargello: I Grandi bronzi del Battistero. L'arte di Vincenzo Danti, discepolo di Michelangelo. A distinguersi, fra questi "grandi bronzi", sono soprattutto tre note statue che raffigurano la decollazione del Battista.

Ed ecco allora che a Lombardi viene chiesto di riproporre, a dieci anni dalla prima, avvenuta a Ravenna nell'estate del 1998, il monologo testoriano in cui la concubina del teatrarca Erode, Erodiade, immersa in una sorta di delirio, rievoca la vicenda che, all'origine di un insostenibile tormento interiore, l'ha quasi condotta alla pazzia: la sua passione frustrata per il Battista, l'idea di far danzare la figlia Salomè per Erode e di farle esigere in cambio la testa del santo, il pentimento, il vuoto in cui rimane sospesa, i tentativi di suicidio, e l'attesa infine di una risposta che le indichi una strada di salvezza.  

Erodiàs, in realtà, è il secondo di tre monologhi scritti da Testori (Novate Milanese, 12 maggio 1923 - Milano, 16 marzo 1993) all'inizio degli anni Novanta, poco prima della morte: si tratta dei tre lamenti funebri (Tre lai) di Cleopatra sul corpo di Antonio (Cleopatràs); di Erodiade, appunto, su quello di Giovanni Battista e della Madonna su quello di Cristo (Mater Strangosciàs). A differenza del 1998, quando Lombardi aveva dato vita a "Erodiàs" e, subito dopo, senza soluzione di continuità, anche alla "Mater Strangosciàs" (e risale invece al 1996 la sua prima interpretazione di Cleopatràs), quest'anno il lamento di Erodiade va in scena da solo, autonomo e senza tagli come era accaduto in passato.

Dopo essere uscito dalla mostra di Danti, lo spettatore trova dunque posto nelle sedie sistemate sul lato lungo del cortile. Il cortile di un palazzo duegentesco, il Bargello, che è sinonimo di nobiltà (nel Medioevo e Rinascimento) ma, trasformato in carcere per trecento anni, anche di dolore e sangue: un cortile che, in questo caso, deve farsi teatro di una vicenda che è ambientata nel Palazzo del re di una Palestina povera e sabbiosa, e la cui protagonista, come vuole il gioco metateatrale caro all'autore, viene incarnata da una soubrettona brianzola.

Tutt'intorno è il cielo blu con le prime stelle, l'aria buona della sera e le rondini, le luci che illuminano la torre "Volognana", una musica ebraica di sottofondo e poi il lamento di Didone nel Didone ed Enea di Purcell. Di fronte è il sobrio e suggestivo allestimento scenico curato da Fabrizia Scassellati: circondato da uno pseudogiardino orientale composto di sabbia bianca e piante grasse e tenuto in ordine da un misero valletto semimuto, il pozzo che sta in mezzo al cortile diventa una sorta di trono il cui schienale è costituito da un alto iridescente tendaggio di fili cui sono appesi cocci di bottiglie colorate. Ai piedi del pozzo è la testa in gesso del Battista. L'attore, Sandro Lombardi, che è quindi una soubrette di provincia nei panni di Erodiade, entra lentamente in scena passando alle spalle degli spettatori, sposta la cortina di cocci smerigliati e, in frak, tutto ingioiellato e la corona in capo, disattendendo le indicazioni sceniche dell'autore (che voleva alla ribalta un vero e proprio trono tempestato di patacche brillanti) ma mostrando di comprenderne il pensiero alla perfezione, si seppellisce, fino alla vita, dentro al pozzo: omaggio, questa immagine, a un ritratto fotografico di Paloma Picasso realizzato nel 1990 da Pierre e Gilles ed evidente citazione dei Giorni felici di Beckett, dove Winnie è condannata alla medesima pena dell'antieroina testoriana, ovvero a lunghi anni di Purgatorio in vitam.  


Sandro Lombardi
Sandro Lombardi


A questo punto ha inizio il lungo lamento di Erodiade, scritto in quella tipica "lingua del teatro" fatta di carne e sangue, inventiva ribollente e in buona parte patologia, cui lo scrittore di Novate era abituato a dare forma a uso e consumo degli attori, pensando quasi sempre a determinate voci e corpi umani. Quanto al contenuto del monologo, in una certa misura arricchito da Lombardi con farciture sapide e quasi sempre azzeccate (se si esclude forse l'allusione ad Arcore…) più che compatibili col gusto di Testori (canzoni, per esempio, come l'Haba Naguila nell'interpretazione data da Josephine Baker nel 1966 all'Avana, Il cielo in una stanza di Gino Paoli e molte altre), è tutto caratterizzato da una bruciante, postmoderna, magmatica convivenza di registri diversi (e non di rado opposti), in perenne equilibrio tra realismo e visionarietà, tra tragedia e comicità, sempre oscillante tra zone alte anche sublimi e zone basse spesso e volentieri oscene. La novità dell'autore è infatti quella di postulare un'identificazione della carne con il Verbo, dell'eros con il divino e di osare, in pratica, e senza alcuna volontà di provocazione, di «tirare in ballo Cristo - come chiosa in breve Lombardi sul programma di sala - a proposito del furore del desiderio». «Oh dei, […] - dice Erodiàs rievocando il suo primo incontro col Battista - perché arete permettato che un simil ganzo, anz'anzo, un simil ganzone, vegnisse incontro a me gnanca de vesti covertato, anz'anzo, per esser veritiera fino in fondo, sì e no coverto dai slip giust'ecco, lì, in tondo? […] Parlo de te, lurido santone, […] lurido porcello ovver maschione!»: si assiste così al continuo trascolorare di Erodiade nella sua interprete, la sboccata e spampanata diva da cafè chantant di periferia di cui si è già parlato e, grazie allo straordinario talento metamorfico dell'attore, anche in altre innumerevoli creature non abbastanza forti per non cadere in tentazione, piene di vizi, pensieri cattivi e rimorsi, infelicissime, patetiche e provenienti da ogni parte d'Italia (da Milano alla Sicilia) cui l'attore sembra poco alla volta, ora all'una ora all'altra, dare voce. Sono tutte figure grottesche che sembrano lontane anni luce dalla grazia e dalla salvezza, ma che non possono non indurre in simpatia, ovvero in compassione: ed è qui allora che si sente l'amore dell'autore per la realtà, i deboli, i vinti, i derelitti e i diseredati.    

Cangiante, sempre in serbo nuove sorprese, l'attore gioca con le diverse cadenze dialettali (ora settentrionali ora meridionali), i vari registri e gli opposti toni come un grande artista di giocoleria con le palline e i cerchi e, a sottolineare questa finora inedita fisionomia un po' circense assunta da Erodiàs, contribuisce anche la sua truccatura vagamente e malinconicamente clownesca (due alti triangoli verdiazzurri sopra gli occhi): a non far venire mai meno, inoltre, anzi a fomentare sempre di più, l'attenzione e l'attrazione del pubblico nei confronti del monologo (e a riuscire, fra l'altro, a non fargli mai staccare gli occhi dall'ipnotico mezzobusto del protagonista) è il fatto di averlo strategicamente suddiviso in brevissime sequenze separate fra loro da alcuni secondi di "buio". Si crea così una continua suspance e, quasi si stesse assistendo a uno spettacolo di teatro-immagine o di magia, si lascia l'attore immobile in una posizione e poco dopo lo si ritrova sempre in un'altra.

Come scrive ancora Lombardi sul programma di sala, tutti i drammi di Testori, morto solo tre anni prima di poterlo vedere alle prese con Cleopatràs, «sono composti per attori specifici, che hanno nome e cognome, sin dalla Tentazione in convento per Franca Valeri, dalla Monaca di Monza per Lilla Brignone, e poi la Trilogia degli Scarrozzanti per Franco Parenti, Erodiade per Valentina Cortese, tutti i titoli pensati per Franco Branciaroli o per Andrea Soffiantini. Infine i Tre Lai che, senza saperlo, Testori ha certo scritto per me». Di questo, nessuno ne ha ormai più alcun dubbio: una volta «stanato», «portato allo scoperto», «spinto a scoprire, estrarre e mettere a fuoco» risorse espressive che neppure lui sapeva di possedere, l'attore si può ben dire che, in grado di valorizzarlo all'ennesima potenza, sia diventato la Babette Hersant del teatro di Giovanni Testori.



Erodiàs
cast cast & credits
 
 

 

 

Erodiàs

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Erodiàs
Erodiàs

 

 

 

 



Foto di Marcello Norberth

 








 

 

 

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