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Festival
di Franco Sepe


  © Paolo Primiero
Data di pubblicazione su web 25/03/2008  

                                                                               Per Paolo Aleotti

 

Riconsegnando la tazza vuota del caffè alla hostess china sopra la sua spalla, aveva girato un ultimo sguardo al gruppo dei colleghi inviati dai giornali per l'appuntamento annuale. l loro occhi lasciavano intendere come la trasferta li eccitasse, anche ora che il silenzio stava per insinuarsi tra quei sorrisi contagiosi come una precauzione indispensabile, quasi un rito necessario all'incolumità.

Fatta scattare la fibbia metallica della cintura che lo assicurava al sedile, Giulio si preparò alla discesa. Collo e tempie gli pulsavano rapidi, quasi quanto il lampeggiare fitto del fanalino all'estremo dell'ala ritagliata nell'oblò; il cambiamento di pressione lo obbligava a deglutire sempre di nuovo per liberare i timpani, e ogni volta sentiva come uno strappo alla gola. Che stesse per cedere anche lui alla cinese, si era chiesto, mentre ripensava ai focolai che da un mese lo attorniavano, risparmiandolo, però, per fare di lui un superstite da spedire ora in farmacia ora al supermercato, perché la vita di una dozzina di individui, tra parenti e amici, non restasse priva dello stretto necessario per sostenersi e fronteggiare la malattia.

Sotto di lui ora stava nascendo una orchestra di luci, insieme alla fuga di arterie fluorescenti che irradiavano la città in lungo e in largo. L'aereo aveva sorvolato la pozza abbagliata di uno stadio, poi gli sbuffi viola di un gruppo di ciminiere dal collo cosparso di lucciole, per adagiarsi infine sulla pista col rombo di una bestia placata e terminare la corsa tra gli hangar sonnolenti divisi dai cordoni di neve accatastata.

L'attesa per il bagaglio era stata minima, ma l'accenno di emicrania trovava ora nel taxi surriscaldato l'occasione per espandersi. Insieme a lui erano saliti altri due della comitiva. Gli alberghi verso cui si stavano dirigendo, poco distanti l'uno dall'altro, facevano circolo attorno agli uffici e alle sale di proiezione dove la sera stessa si sarebbe inaugurato il festival.

La donna accanto a lui sospirava ad alta voce il bagno caldo che l'avrebbe rimessa in sesto prima del galà. Perché il film d'apertura, spiegava, lo aveva purtroppo già visto a Parigi — non lasciando intendere se quel purtroppo valesse una squalifica, o non stesse lì ad esprimere un suo personale rammarico. L'altro, invece, con la faccia quasi schiacciata al finestrino, borbottava qualche commento spocchioso sulla grafica dei cartelloni che inneggiavano al festival, sempre più fitti a misura che la vettura guadagnava le zone adiacenti al centro.

Adele: così si chiamava la donna, sebbene nei suoi articoli si firmasse  Ada; mentre dell'uomo, che anno dopo anno, non richiesto, si prestava a fare da consulente a tutti, Giulio a malapena ricordava la sigla dell'agenzia presso cui lavorava.







 

Vedendoselo così davanti all'improvviso, la signorina della recezione ave­va strabuzzato gli occhi; ma un istante dopo, con un sorriso non più schermato dai larghi occhiali con i quali Giulio la ricordava, fece segno di riconoscerlo. — Come va, tutto bene? — aveva chiesto, mentre con una mez­za rotazione si era voltata per prelevare la chiave di una stanza dal quadrato dietro le sue  spalle. — A parte un po’ di mal di testa — lamentò Giulio —. Lei invece mi pare in ottima forma.

— Qualche giorno di riposo in più non guasterebbe — sospirò la donna, men­tre respingeva gentilmente il passaporto, come a indicare che si poteva prescindere dalle formalità. — Un'altra volta però non dimentichi di mandare un fax con la conferma  — disse, porgendogli un piccolo birillo numerato con la chiave agganciata all'apice.

Giunto nella sua camera, Giulio saggiò la consistenza del guanciale e del piumino, schiacciò due volte l'interruttore della lampada sul tavolino da notte, gettò un’occhiata veloce nel bagno: nulla dell’arredamento gli pareva mutato. Infine scostò le tende della finestra per guardare di sotto le vetrine illuminate dei negozi. Ma anziché quelle, trovò le pareti strette e grigie di un cortile, dal quale, rose in parte dalla ruggine, risalivano delle scale a chiocciola incolonnate ai quattro angoli. Se ne stupì, ma senza provare un vero rammarico: escluso dal traffico, il suo sonno ci avrebbe persino guadagnato. Il pensiero gli comunicò una serenità quasi vacanziera. Ma un attimo dopo, voltandosi a guardare quella stanza intristita dal neon, avvertì invece come una sorta di infausto presagio, un improvviso calo di energia che mise in relazione alla fatica del soccorso prestato al suo giro di infermi, all'ansia dei preparativi che già qualche giorno prima della partenza aveva cominciato ad affliggerlo.

Tolti pantaloni e maglione, si infilò sotto le coltri: una decina di minuti sarebbero stati sufficienti a rinfrancarlo. Abbassate le palpebre lo colse, chissà perché, il pensiero di Adele che in quello stesso istante, avvolta in una schiuma vaporosa, stava spremendo via la stanchezza dal suo corpo. Come d'incanto si sentì investito da quella nube profumata, che della donna scopriva gli omeri a fior d'acqua e la nudità rifratta sul fondo della vasca. Adele pareva guardarlo come da una nebbia lontana, con le stesse occhiate soccorrevoli con le quali in passato più di una volta gli aveva alleviato l'impaccio delle cene collettive, a conclusione di giornate annegate nel chiuso di una sala buia, dove quelli come loro erano chiamati a sforzare la vista sui sottotitoli di pellicole mostrate in successione ravvicinata, ad ascoltare lingue spodestate dalla traduzione simultanea, in un tempo che si protraeva fino al termine delle conferenze-stampa. Ora lei lo chiamava a sé, con la mano gli faceva segno di avvicinarsi, per poi invitarlo a immergersi e a disperdere insieme a lei ogni spossatezza nel calore liquido di quell'alveo accogliente. Un calore intenso,  che lui sentiva espandersi in tutto il corpo, divenuto un centro soporifero nel quale lentamente e voluttuosamente sprofondava grazie a quel dolce invito. Tutto si stava svolgendo in un modo piuttosto naturale, come forse inconsciamente si era augurato che un giorno avvenisse con Adele: non nella città dove vivevano senza sapere l'uno dell'altro, bensì in quella lontananza nella quale si stemperava ogni altro legame o appartenenza.

Era stato bello, anche se per un tempo brevissimo, essere avvolto dalle soffici braccia della donna; ma adesso, al risveglio, quelle braccia erano di colpo svanite lasciandosi dietro un languore inerte e una specie di soffocamento che Giulio attribuì all'aria troppo asciutta dei caloriferi — quell'aria gli aveva disidratato i polmoni, ed essi ora, nel rigettarla, gli rendevano naso e gola incandescenti.

La sveglietta digitale sul comodino segnava cifre insospettate. A quest'ora la proiezione era finita da un pezzo, e con tutta probabilità gli invitati eccellenti, i fotografi e la stampa  si accalcavano già nell' immenso salone dell'Intercontinental. Giulio fece per sollevarsi, ma un attacco di tosse, dopo una repentina impennata, gli rigettò indietro la testa sul cuscino. Sporgendosi obliquo, per scatarrare nel tovagliolo di carta con le iniziali dell'hotel, fu preso da un improvviso capogiro che lo convinse a rinunciare  a prendere parte all’apertura dei festeggiamenti. Domani i suoi colleghi lo avrebbero rivisto di nuovo in forma, grazie anche alle aspirine che stava per ingoiare. Di ritorno dal bagno, benché debole, si portò fino al telecomando che sporgeva dal mobiletto del televisore. E giacché si trovava in piedi, estrasse il pigiama dalla valigia e lo indossò, aggiunse un altro cuscino e riprese la posizione allungata di prima. Dopo di che si mise ad armeggiare coi programmi.

Li fece scorrere uno dopo l'altro, cercando immagini che gli par­lassero prescindendo dall'idioma a lui inaccessibile. D’un tratto apparve De Niro, proprio lui, il calice sollevato, sorridente ed enigmatico, che ammiccava alla telecamera. Era chiaro che non stava recitando, perché un cameriere gli era maldestramente passato accanto sfiorandogli una spalla. Con l’allargarsi del campo era emerso al suo fianco il direttore del festival, anche lui in smoking, e accanto a lui un paio di celebrità femminili con il petto traboccante da ampie scollature. Fra festoni variopinti dai bordi traforati a guisa di pellicola e torte a più piani sormontate da una candida cinepresa rivestita di glassa, si intravedevano gli invitati, numerosissimi, chi impettito e avaro di gesti, chi remissivo o ironico nel concedere pose a operatori televisivi e  fotografi.

Giulio considerò che tutto sommato era assai più confortevole trovarsi nella sua stanza d'albergo, a spiare, come dal buco di una serratura, nel marasma della festa. Si ricordò di quando ragazzo, costretto a letto da una febbre improvvisa, aveva incaricato un amico di riferirgli per telefono i particolari del vernissage di una giovane pittrice — non però giovane quanto lui — che aveva deciso di incamminarlo sul sentiero dell'arte e dell'amore. Nel ripensare all'episodio, e alla donna la cui larga considerazione si era rapidamente involata come tante altre passioni di miccia corta, Giulio avvertì, con uno scarto interno, un'improvvisa tenerezza per Adele. Una tenerezza accresciuta dalla scena ancora viva del lungo dormiveglia, che non aveva nulla delle cose immaginate e subito dimenticate. E mentre rifletteva su quel transfert, del resto assai comune, gli parve di identificare l’amabile collega in una sagoma lasciata sullo sfondo dalla telecamera, in uno sguardo che sembrava scrutare da lontano, incurante delle bocche che si aprivano e chiudevano lì accanto; uno sguardo che anziché mostrarsi curioso degli invitati, sembrava vòlto a rinvenire nella calca la fisionomia di una persona attesa; e tale dunque da tradire una certa apprensione, persino un certo disagio.

Spense il televisore a un ennesimo cambio di inquadratura, quasi un po’ vergognandosi di quella attribuzione di interesse nei propri confronti. In verità, l'aver mancato il  film e il ricevimento lo faceva sentire un escluso, un impedito, come quella volta di cui si era poc’anzi ricordato. Un senso di solitudine e di rammarico gli piombò addosso improvviso; e di colpo avvertì una vena di estraneità per quelle mura, e per quella sua professione che tre o quattro volte l'anno gli imponeva dei soggiorni obbligati, quasi a dispetto del suo incondizionato e gioioso trasporto per il cinema.

 




 

A spazzare via il sonno e le vane fatiche necessarie a ripristinarlo, intervenne il frastuono dell'ascensore amplificato dal corridoio, la ventola dell'aerazione, lo scolo dell'acqua dalle cisterne in cima ai terrazzini desolati. Dischiusi gli occhi su quella fanfara, Giulio istintivamente si tastò il collo, che gli doleva, scoprendone ai lati un gonfiore sospetto di ghiandole. La zona adiacente alla giugulare si era così ispessita che pareva un nerbo di bue; il petto mandava colpi esagitati che risalivano lungo il tratto mascellare, fin sopra le tempie; la materia cerebrale pareva sul punto di implodere nella cavità ossea che la conteneva.

Un po’ lo allarmava l'idea di una malattia da dover curare fuori della cerchia solidale delle amicizie e dei congiunti, cui appartenevano medici disposti ad affacciarsi, tra una visita e l'altra, persino due volte al giorno. Quella tutela, della quale in passato si era valso nei casi più o meno seri di infermità, adesso veniva meno proprio nell'ora del maggior bisogno, quando l'uomo cioè, sradicato dal proprio ambiente, giace abbandonato a se stesso.

Nel richiedere al telefono che la prima colazione gli venisse servita in camera, Giu­lio fece presente alla persona di turno della recezione la necessità urgente di una visita medica. Ma molto cordialmente la signorina lo informò che nel suo paese i medici si scomodavano solo di fronte a una seria sintomatologia; di regola perciò conveniva aspettare fino a sera, per essere sicuri di un eventuale espandersi del malessere. Riattaccando, Giulio socchiuse gli occhi rassegnato. Ma un attimo dopo fuggì col pensiero al festival, alle tre proiezioni la cui cronaca era attesa presso lo studio radiofonico da cui era incaricato già per quel pomeriggio. Cosa fare, a questo punto? L'unico atto sensato sarebbe stato di mettersi sulle tracce di Adele, lasciando da parte ogni fantasticheria e confidando piuttosto nel suo pietoso soccorso.

La mattinata Giulio l'aveva passata in un dormiveglia ininterrotto, durante il quale i sintomi affacciatisi qualche ora prima avevano avuto tutto il tempo di assumere la loro piena morfologia. L’intero corpo adesso ribolliva in un vero e proprio accesso febbrile, che lo faceva sentire come rinchiuso tra le vetrate di un giardino d’inverno, ora addolcito ora sferzato da un raggio di sole.

In tutto quel torpore, trovarsi lì o a casa sua non faceva poi molta differenza. La questione era un’altra: l'insostituibilità del suo operato. II caporedattore, sottovalutando i rischi della salute, aveva affidato come al solito tutte le corrispondenze ad un unico inviato. E adesso quell'inviato, cosa del tutto improbabile, bisognava rimetterlo al più presto sulle gambe. Oppure ricorrere all’aiuto di quell’unica collega con la quale per lui collaborare sarebbe stato possibile.

Nel primo pomeriggio, messa al corrente della cosa, si era fatta finalmente viva Adele, con la sua aria un po’ trafelata, un pacco di materiali per la stampa, il computer portatile stipato in una borsa in bilico sull'omero. Lasciata ricadere ogni cosa sulla moquette, aveva fatto per avvicinarsi, ma lui scuotendo il capo le aveva intimato la distanza di sicurezza. Dal bordo della poltrona Adele lo aveva scrutato brevemente, con lo stupore di chi mette a confronto due aspetti discordanti di una medesima persona, cercando nella memoria i segni premonitori di quella trasformazione. Ma, inaspettatamente, quel pallore diffuso sul quale naso e orecchie arrossati risaltavano come un dettaglio marcato a scopo caricaturale, insieme all’espressione smarrita frammista a pudore di Giulio, dischiusero le labbra della donna in una breve risata, che a stento le riuscì di reprimere, e della quale si scusò prontamente. — Povero Giulio — sospirò lei. — Non ti avevo mai visto con una faccia così avvilita. Ma vedrai, sistemeremo insieme ogni cosa, finché non ti sarai rimesso del tutto.

II tono sincero della donna, quella fiduciosa pacatezza con cui aveva pronunciato insieme e ogni cosa, e i significati che l'accostamento dei due termini, al di là della contingenza, poteva racchiudere, lo distrassero momentaneamente dalle rogne della malattia. Solo quel limitativo finché ve lo riportò di nuovo, mettendolo un po' nei panni di un Pinocchio moribondo al cospetto della Fata. Ma tralasciando queste ed altre oziose considerazioni, Giulio si rese conto della necessità urgente di concentrarsi sul presente; e al presente Adele infatti lo richiamò allungandogli un mucchietto di fotografie, di locandine ripiegate, di sinossi riguardanti i film di quella prima giornata.

L'ammalato faticò ad appuntare il suo sguardo mezzo tramortito su quella mole di materiale. Nelle sue condizioni riusciva a malapena a incuriosirlo qualche foto; mentre di leggere non se ne parlava. Ma a un certo punto, schiarendosi con garbo la voce fortemente arrochita, Giulio osservò: — Dal tipo di vestiti e dall'arredamento della casa, sembrerebbero dei contadini. Difficile, trattandosi di un popolo asiatico, farli corrispondere a un'epoca precisa.

— La storia si svolge nel Giappone del dopoguerra — precisò Adele. — E quelle sono facce di gente qualsiasi che non si perde d'animo di fronte a nulla. Nemmeno l'inondazione delle stalle con la perdita del bestiame, nemmeno il flagello della malaria riescono ad abbattere questi uomini.  Eppure, l'intero villaggio è devastato dalle faide.
— Dunque c'è dell'odio. E a monte di quell'odio?
— Una storia d'amore tra giovani di famiglie nemiche, appena abbozzata, che finisce misteriosamente in disgrazia.
—  Perché misteriosamente?
—   Perché, non si sa come, la barca si rovescia lasciando perire nell'incidente soltanto la ragazza.
—  Quei due, si conoscevano da tanto?
— Da quando erano bambini. Ma adesso soltanto cominciavano ad accorgersi che i loro giochi non erano stati che un pretesto per lasciar tempo ai sentimenti.
— È così nel film? — ha chiesto Giulio, scrutandola negli occhi.
— No, sto aggiungendo del mio — ha detto schermendosi Adele.
— Così, a dire il vero, piace di più anche a me — ha sorriso lui. Poi ha soggiunto: — Suppongo che dopo il naufragio la famiglia della ragazza, ignara o ostile all'amore, abbia reagito allo strazio vendicandosi.
— Non prima di aver scelto come alleato un giovane tutt'altro che luminoso. Uno al quale, nonostante le insistenze, non era riuscito di ingraziarsi la fanciulla.
Rimessosi su a sedere con la schiena contro la spalliera del letto, Giulio,  dopo aver scatarrato con discrezione, ha chiesto: — Ti è parso un buon lavoro?
— Onesto, per un esordiente.
Lui fece segno che poteva bastare, e passandosi una mano tra i capelli in disordine, la pregò di andargli a prendere il registratore nella sua valigia aperta e quasi intatta ai piedi dell'armadio. Così, frase dopo frase, con la donna che gli infondeva coraggio non appena un colpo di tosse lo obbligava a ricominciare, Giulio poté imbastire il primo minuto di cronaca. 

Il malato trascorreva molto del suo tempo a contemplare il soffitto giallognolo racchiuso nella sua cornice bianca di stucco; le quattro stampe allineate sulla parete di destra inneggianti ai monumenti-emblema della città; il salottino con il televisore che vi troneggiava al centro. Chissà per quanti giorni ancora sarebbe stato quello il solo  panorama a far da sfondo alle sue angosce: non i mondi sconfinati che il cinema aveva finora regalato alla sua anima; e nemmeno le sensazioni procurate da qualche minimo spostamento in città; bensì quel soggiorno obbligato da protrarre ancora in un ambiente di norma idoneo al solo pernottare. II verdetto del medico, che sull'uscio aveva incrociato Adele con la staffetta in mano da recare ai tecnici dell'emittenza, suonava come una condanna: una settimana di assoluto riposo, e una terapia a base di potenti antibiotici.

Non avendo null'altro a cui badare, Giulio avrebbe atteso il vitto, come si conviene a un degente; e, una volta al giorno, la cameriera mandata a rassettare la stanza con la raccomandazione di non sollevare quella polvere che in alberghi discreti comunque non dovrebbe mai visibilmente depositarsi. Finché, nell'ora in cui fuori cominciava a calare il buio, si sarebbe fatta rivedere Adele, come in uno di quegli appuntamenti serali tra innamorati che riducono la notte e il giorno che li precedono a sterile anticamera.
Aspettarla gli metteva addosso la frenesia dell'amante, quale appunto egli si sentiva per quel desiderio di intimità che fa percepire il vincolo dell'amicizia come un recinto troppo scarno, da provvedere quanto prima di mura e bastioni. Perciò, non appena la udiva battere all'uscio e introdurre la chiave, esultava di una gioia che a trattenerla gli faceva più male dell'attesa stessa.

Che Adele avesse familiarizzato con l’ambiente, si vedeva dal fatto che sparpagliava amabilmente le sue cose intorno alla poltrona, sulla quale proprio in quel momento si era lasciata andare con un bel sospiro. — Ti trovo già un po’ meglio —  osservò; e subito volle sapere della diagnosi.
Giulio sollevò tutt’e due le mani, tenendo tre dita della sinistra ripiegate; poi premette una capsula dal blister e, gli occhi bassi e tristi, finse di ingerirla con un sorso d'acqua.
Tutti e due scoppiarono a ridere. Poi lei, sbirciando il suo orologio da polso, ridiventò seria. — Sulla durata della convalescenza e la terapia prevista, mi sembra vi sia poco da aggiungere. Vogliamo passare subito ad altro? — E, senza attendere un cenno di assenso, gli allungò le foto.

Giulio, che in quei giorni aveva vissuto ogni atto concernente loro due dentro un tempo assoluto, provava ora una certa avversione a ritenere la visita di Adele come un episodio subordinato a una certa durata. Ma subito si pentì della delusione, considerando i tanti altri impegni che la donna per causa sua era costretta a protrarre fino a tarda sera. Così, inavvertitamente, sfocando con la vista il ritratto del rapinatore dal viso coperto e il mitra spianato in corsa verso un furgone blindato, sollevò sulla donna uno sguardo colpevole.

— Trovo anch’io poco adatto un film del genere —  reagì lei, fraintendendo. — Si vede che questa volta i francesi non avevano niente di meglio da offrire.
Giulio, abbassando gli occhi sulla testa inguainata di un altro complice, disse: — Un novello Fantomas? — Non proprio — fece lei. — È la storia di un aspirante scrittore deciso a seguire a tutti i costi la propria vocazione. Il quale però, non trovando di che sostenersi, convince due artisti squattrinati a svaligiare una banca insieme a lui. Ma, e questo è il punto, al solo scopo di garantirsi una rendita per realizzare le proprie aspirazioni.

— Carina l'idea — sorrise Giulio. — E ci riescono davvero? — chiese, rimescolando le foto come fossero carte da gioco.
— Purtroppo, no. Ma una prigione confortevole li sottrae a qualsiasi preoccupazione materiale, cosí per qualche anno ognuno di loro può dedicarsi interamente alla propria arte.
— In fondo non sono stati poi così scalognati — commentò lui, ironico. — Un bel paradosso sulla libertà. Chissà, magari sarebbe piaciuto a Voltaire.
— Può darsi, ma non deve aver convinto i giurati, perché uno alla volta sono sgusciati via dalla sala.
— Si vede che avevano poca voglia di divertirsi — concluse Giulio, chiedendosi se un film del genere per lui ora non sarebbe stato un ottimo passatempo.
Dopo di che sfilò da una busta opaca un'altra serie di immagini. 

La febbre adesso era quasi del tutto rientrata, con qualche piccola impennata nelle ore pomeridiane. Ma una grande debolezza aveva adesso invaso Giulio nel fisico, e la tosse, benché diradata, pareva ad ogni accesso sconquassargli il petto. Altrimenti i dolori alla testa e al collo erano cessati, e in generale respirava meglio. Il dottore tuttavia gli aveva ingiunto di non lasciare per nessuna ragione il letto, di diffidare delle prime avvisaglie di una guarigione: occorreva ristabilirsi bene, ed essendo il rischio di una ricaduta assai alto, in caso di insuccesso sarebbe occorso portare la dose degli antibiotici a un triplo di quella già assunta.

Con un ampio sbadiglio Giulio si stirò nel suo alveo di lenzuola e coperte appena riapprontato dalla cameriera; poi sottrasse al comodino e accostò a una guancia, dopo averlo rimirato, un piccolo orsetto chiaro di peluche, dono di Adele. Lo tenne così, mentre rimuginava la storia appresa da uno degli opuscoli da lei recatigli la sera prima. Gli tornò in mente la figura della donna agente, la quale, dopo aver invano resistito per non cedere ai propri sentimenti, con il suo sacrificio salva da morte sicura l’intrepido avversario del regime da lei ricattato e denunciato. Pensò all’uomo ammattito per le sevizie, finito suicida dopo essere stato volgarmente respinto dalla figlia di lei, cui crede di dovere tutto l'amore riservato all'altra. Una tragedia, la loro, scaturita dal trionfo del pentimento e della compassione sul cieco odio di bandiera, e accompagnata dalla lucida scoperta che i sentimenti, quelli veri, traggono origine dall’agire stesso, mai e poi mai da una idea, fosse pure la più giusta. Dunque era stato l’incontro reale tra due individui, vissuto in condizioni particolari — qui si parlava di prigionia; ma si sarebbe potuto benissimo trattare anche di malattia —  e non un'immagine preconcetta della persona, a conferire dignità e senso alla relazione.

Nei termini di questa norma, valida per la vita non meno che per il racconto cinematografico, Giulio riconsiderava ora la sua amicizia con Adele: priva di favoleggiamenti sul futuro, basata sull'atto spontaneo e sul significato che esso racchiudeva per ciascuno di essi. Da questo barlume di intesa, proprio come nelle scene fatte lievitare da un copione per il cinema, sarebbe potuto, volendo, sbocciare anche un sentimento, e da lì poi, in maniera del tutto naturale, avrebbe preso piede un legame. Adele aveva offerto d’altronde prove ineguagliabili; lui invece cosa schierava sul tavolo per farsi conoscere, per farsi voler bene? 

Quel pomeriggio, più monotono del solito, si fece interminabile col  giungere della notizia che Adele era impegnata a rincorrere un regista sfuggente, avaro di interviste, intervenuto al festival dopo varie disdette. A missione conclusa, le sarebbe rimasto appena il tempo di venire a ritirare il nastro con su incisa la voce di Giulio, da inviare via radio all'emittente italiana.

AI telefono egli non lasciò trapelare quella lieve ombra di dispiacere; anzi, mostrandosi comprensivo fino all'esagerazione, acconsentì senza indugi, bensì fossero scontate, alle sue raccomandazioni di sempre: non sforzare la voce, attenendosi semplicemente alla sintesi riportata nell'opuscolo che avrebbe fatto pervenire in giornata alla reception; limitarsi a qualche pro e contro sulla regia, restando però preferibilmente sulle generali; infine una rapida scorsa agli umori del pubblico, di cui lei stessa ora lo stava informando.

Ma qualche ora dopo il faccia a faccia con il registratore, non confortato dalla presenza viva di Adele, parve incutergli soggezione; e per quanto ripetesse alla lettera ogni sillaba dai pochi appunti presi, non riusciva a trovare il tono giusto. Allora si perdeva di coraggio, disprezzandosi, come era solito fare quando un cambio d'abitudine lo apriva a nuove difficoltà isolandolo nella sua pigra inerzia. Quando cioè senza mezzi termini passava a disfare la trama dei suoi trentacinque anni, deplorando un buon terzo di quell'età, paragonando la consistenza del suo mestiere a un grappolo di sogni racchiusi nel fascio di luce sospeso tra la cabina e lo schermo: tale cioè da estinguersi col cessare di quel buio incantato.

Ma non era stato proprio quel buio a fargli sognare i grandi orizzonti della vita, quando ancora si dimenava negli angusti limiti della provincia? E non aveva forse, a causa di quel buio, incontrato anche Lia, la giovane attrice a cui si era unito, nel mestiere come nell'amore, con la stessa rapidità di un titolo risucchiato nel fondo della pellicola?

Degli anni trascorsi insieme, anni colmi di speranza improntati alla comune ricerca di un solido avvenire — i buoni voti da lei conseguiti all'accademia; la sua prima colonnina per i film in formato video; poi i provini della donna nei teatri di posa, affiancati da una orgogliosa recensione radiofonica tutta sua; infine il matrimonio, altrettanto fulmineo nell’ estinguersi — a Giulio era rimasto poco più di un pugno di mosche; accanto alla persuasione che quell’ atto precipitoso, ispirato a una regola dai più condivisa, non avrebbe potuto comunque soffocare in lui l'atavica, individuale protesta che da sempre gli covava dentro. A Mara, la sua più recente conquista, non era riuscito finora di diventare la sua convivente; le collaborazioni giornalistiche stavano riacquistando lentamente parte della loro antica libertà.
Intanto, inchiodato su quel letto, rimasticava l’amara corteccia della solitudine.

Avvolto in una vestaglia cobalto, dono di Mara, Giulio perimetrava la stanza a passi meditati, la pianta un tantino incerta sopra quel contatto che reclamava flessibilità e coordinazione. Un raggio di sole era penetrato nel cortile a denunciarne la nudità, cioè l'assenza del rosso vivificante dei gerani, di piante sempreverdi chiuse tra doppie finestre come dentro una serra sicura, delle consuete tendine bianche di pizzo trapunte di emblemi inneggianti alla serenità domestica.

Si palpava la seta dei risvolti, e intanto ragionava sulla enorme dose di impegno che occorre per accostarsi all'intimità di una donna, sullo sforzo necessario a togliere il velo alla propria. A Mara sentiva di volere bene, ma era troppo forte in lei l’aspirazione a fargli compiere il passo decisivo, malgrado lui a più riprese le avesse ribadito le sue idee in proposito. Adele, invece, benché ignara dei suoi sentimenti, ricambiava con delle affettuose attenzioni, e persino con dei sacrifici. La sera avanti, scusandosi per la fretta, gli aveva preso addirittura una mano tra le sue, permeandolo di dolcezza col verde inebriante dei suoi occhi. 
 

II festival era ormai alle ultime battute. Giulio aveva ripreso poco per volta il suo colorito e, a conclusione di una ennesima giornata di attesa, sedeva nella poltrona in blazer e pantaloni a coste, dirimpetto ad Adele. Ascoltandola, fissava di tanto in tanto il televisore spento, quasi vi vedesse scorrere le scene da lei descritte con cura e dovizia di particolari. L’amica gli stava raccontando delle acrobatiche astuzie e millanterie di un postino innamorato, quando d’un tratto lo stupì con un commento che sembrava diretto a lui: — In fondo gli uomini non hanno mai smesso di considerare la donna, se non come creatura della loro fantasia.

È il seguito della costola di Adamo — ribatté Giulio, cercando di incitarla al riso. Ma lei finse di non afferrare la battuta.
Poco più avanti, riferendosi ad alcuni episodi da un altro film su un rapporto problematico tra genitori e figli risolto in blanda pacificazione, Adele, assai esplicitamente, gli chiese: — Ma tu, hai mai desiderato un figlio?
Giulio cercò un punto neutro a cui afferrarsi, per non correre il rischio, con una risposta avventata, di farsi passare per un cinico: — Non contribuire in un modo, equivarrebbe in un altro a ridistribuire le nascite sul pianeta.
— Potrebbe essere un argomento — sorrise Adele, sorvolando sulla sua personale opinione.

La donna sorseggiava il suo tè, muta; ma nel modo in cui si offriva allo sguardo di Giulio, uno sguardo traboccante di quel desiderio inseguito per giorni e notti e che ormai premeva verso un esito felice, piuttosto che lasciar pensare a un diniego, sembrava come attendere che da un momento all'altro egli si avvedesse di un suo segreto difficile da rivelare. Giulio, superato qualche attimo di perplessità, ebbe la netta sensazione di aver inteso. E con una repentina inversione di rotta, tornò sui propri passi, consapevole del fatto che non sarebbe stato più necessario spingersi oltre nella speranza dell’amore. Perché comprendeva finalmente che tutto quanto poteva interporsi tra loro due era quella differente disposizione verso la polarità erotica dei sessi. Ma la qual cosa, beninteso, non intaccava i sentimenti, anzi poteva persino esaltarli.

Forte di questa intuizione, Giulio si aprì in un largo sorriso e, facendo leva con il capo sul poggiatesta, stiracchiò le estremità in un tremito di piacere. Da come i due adesso si guardavano, pareva questo il coronamento felice della loro intesa.

— Domani ho deciso che verrò anch’io al galà di addio. Credo di essere abbastanza in forze per parteciparvi — disse Giulio, più disinvolto che mai.
— Sarai tu il mio cavaliere? — domandò Adele, dolce e ironica.
— Sì, il tuo cavaliere e il tuo paladino — fece Giulio, tutto impettito.
— E sollevandosi dalle rispettive poltrone, si presero cauti tra le braccia come per una prova generale.

Giulio aveva insistito per andare a prendere Adele al suo albergo. La trovò che ancora girava per la stanza inguainata in una tutina nera aderente e scollata, da cui risaltavano le flessuosità di quel corpo bello e un po' infantile. La durata di un attimo, e Adele vi calzò sopra una camicia viola e un cravattino bianco, dei pantaloni a righe e un tight nero.

Appena messo piede nell’ingresso della sala del maestoso albergo dove la festa era appena iniziata, Giulio riconobbe i volti degli artisti dalle foto passate in rassegna durante la degenza. Con Adele a braccetto, cominciò a farsi largo tra lampi e riflettori, oltrepassando i ridottissimi studi televisivi approntati nei corridoi e ai quattro angoli del salone gremito di invitati. I due procedevano cauti, mano nella mano nei guadi più difficili. Sembravano paghi di se stessi e indifferenti verso tutta quella folla in fibrillazione: soprattutto verso i loro connazionali, dai quali giungevano sguardi pieni di sorpresa.

Non smettevano più di farsi confidenze, lasciando a tutti gli altri i commenti mondani. Al sontuoso buffet, dopo quella lunga astinenza, Giulio ebbe modo di gustare ogni genere di pietanze. E quando diedero inizio alle danze, come tanti altri mossero verso la pista per ballare. Là, nel bel mezzo di un walzer, Giulio si accorse di non essere il solo ad ogni nuovo giro a cercare con gli occhi una di quelle attraenti fanciulle da eleggersi a miss a fine serata. Sentendosi così spudoratamente scoperta, Adele fece finta di rimanere per un attimo interdetta; poi invece, con una smorfia deliziosa, afferrò tra le mani la nuca del suo cavaliere e, attirandolo a sé, accostò le labbra alle sue.

A Giulio quel bacio parve ineguagliabile. E soprattutto gli comunicò una sensazione di libertà mai conosciuta prima. Stretti in un abbraccio, con le guance a sfiorarsi, i due seguitavano a volare leggeri sulle note prolungate di quel walzer. Un volo, il loro, senza mèta, maestoso e irresistibile; e assai distante da quell’altro che pure li attendeva l'indomani, e che li avrebbe restituiti, con la primavera ormai alle porte, alle loro rispettive vite.




























 
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