Oggi anonimo allesterno, anzi neppure riconoscibile come teatro a un primo colpo docchio, al proprio interno il Theater an der Wien ha mantenuto intatto il sapore dantico: entrare nella sala in cui vide la luce Il flauto magico è ancora un tuffo nel passato, con tutte le emozioni del caso, almeno per i mozartiani doc. Ma soprattutto – a fronte di una Staatsoper sempre prestigiosissima, ma un po generalista nella programmazione – è ormai la realtà operistica viennese più stimolante: sensibilità verso i nuovi compositori, attenzione ai cartelloni internazionali (questanno vengono importate produzioni da Amsterdam e San Pietroburgo), regie moderne nel senso migliore del termine, cast divisi tra pochi divi “motivati” – anziché in stile take the money and run – e molti ottimi professionisti. Uno dei progetti più ambiziosi dellattuale stagione è stato Medea (o meglio, Médée: il Theater an der Wien ha preferito la versione originale francese con i dialoghi parlati, sebbene spettò proprio a un compositore germanico come Franz Lachner rivestire di note i recitativi che Cherubini non aveva musicato); e si può parlare senzaltro di una scommessa vinta.
Brahms sosteneva di riconoscere in Medea “la cosa suprema della musica drammatica”, ma proprio questo – forse – ha fatto sì che la sua fortuna passasse attraverso un tradimento stilistico: non è un caso se in Italia la celebrità è arrivata grazie allinterpretazione callasiana, a mezza strada tra fuoco romantico e tensioni espressioniste, dunque lontanissima da quella rigida compostezza in cui si sostanzia la vocalità di Cherubini; mentre le bacchette eccellenti che hanno affrontato questa partitura (Bernstein, Schippers) a loro volta lhanno postdatata, instillandovi uno spessore sinfonico e minimizzando le istanze neoclassiche in favore dei prodromi di romanticismo. Fabio Luisi – direttore interessante e discontinuo, che nei teatri austro-tedeschi sta trovando un terreno a lui propizio – fa invece un passo indietro: grazie anche alla magnifica duttilità dei Wiener Symphoniker, ci accompagna in un mondo sonoro fatto di architetture rigorose e levigatezza marmorea, dove la drammaticità è veicolata più dalla timbrica (bellissimo il colore spettrale dei fagotti) che dalla dinamica. È un rigore stilistico che crede nella forza intrinseca della musica di Cherubini, senza far nulla per renderne più accattivante la scrittura laconica e severa: e, paradossalmente, proprio questo dà limpressione duna lettura “moderna”.
Si tratta di una modernità che trova perfetto corrispettivo in uno spettacolo in abiti contemporanei (Medea con abito da sera, gli argonauti in divise da marina militare), ma senza gli scantonamenti prosaici di chi vuole ad ogni costo attualizzare: nella messinscena di Torsten Fischer costumi moderni e gestualità tuttaltro che neoclassica e coturnata evidenziano, piuttosto, il valore diacronico del mito, mentre la drammaturgia ne esce rilevata grazie a pochi elementi metaforici, ben leggibili e mai didascalici. È il caso dellicona della Madonna con Bambino che campeggia al proscenio durante lOuverture, rimando a unidea di maternità sacra opposta – ma a suo modo anche speculare – alla maternità omicida della protagonista; oppure del burqa che avvolge Medea al suo apparire in scena nella reggia di Creonte, sottolineandone la natura di straniera e “diversa”.
Il lavoro sulla recitazione dei cantanti – coristi compresi – è capillare: a ogni personaggio viene impresso un trasalimento o una sfumatura che aprono una prospettiva nuova, da Giasone tuttaltro che dimentico dellars amatoria di Medea (anzi ancora propenso, in fondo, a lasciarsi irretire da lei) a Dircé vista non come vittima predestinata e lagnosissima promessa sposa, ma reale antagonista, forte di una sensualità diversa da quella della maga di Colchide, ma non meno intrigante. Basta poi un piccolo tocco – sui gesti o sugli oggetti – per connotare un trapasso psicologico: il passaggio dalla Médée innamorata e dolente alla Médée ferina e furibonda viene illustrato, semplicemente, mostrandoci la protagonista con il medesimo abito elegante, ma scalza.
Se lesito è di così viva evidenza teatrale, il merito è anche di una compagnia che schiera ottimi cantanti-attori. La presenza magnetica e la straordinaria fisicità di Iano Tamar restano il segno più forte di questallestimento, ma che il soprano georgiano buchi il palcoscenico non deve far passare in sottordine i suoi meriti canori: una voce un po diseguale (ma in un ruolo del genere potrebbe essere un vantaggio), portata soprattutto al canto “di sbalzo”, dove un surplus di metallo conferisce straordinaria penetrazione al declamato, mentre le oasi di cantabilità elegiaca acquistano uno spessore che nulla toglie alla loro lancinante tristezza.
Con la sua venustà diafana ma tuttaltro che scialba, e uno strumento da puro soprano lirico, la Dircé di Henriette Bonde-Hansen è quasi un alter ego rovesciato della bellezza dark e della vocalità drammatica e tagliente della Tamar: al di là del gioco dei contrasti, vanno sottolineate lottima proiezione del suono – che consente a una voce non debordante di riempire la sala – e lo smalto squisito del registro centrale. Nonostante un timbro privo di attrattive particolari, Birgit Remmert conquista, nella grande aria di Néris, per la musicalità con cui il suo canto sa accoppiarsi agli arabeschi del fagotto; mentre Philippe Rouillon, come Creonte, porta la sua autorità di veterano di lungo corso, unita a una voce inevitabilmente non più fermissima, eppure ancora incisiva per volume, oltre che ricca per varietà daccenti. Resterebbe Zoran Todorovich che, con unemissione tutta “di spinta” e una linea vocale stazzonata, plasma un Giasone piuttosto plebeo e rusticano, non ideale né per Cherubini né per un cast altrimenti ottimo. Ma una pecora nera può allignare anche nelle migliori famiglie.
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