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Da Shakespeare a de Simone: il magico mondo di Falstaff

Giovanni Fornaro
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 29/02/2008  

L’ottantenne Verdi dei primi anni novanta dell’Ottocento era un maestro riconosciuto e osannato ovunque, eppure un piccolo tarlo lo corrodeva: non aver mai concesso nulla a sé stesso e al proprio senso ludico, ormai a quel tempo attempato ma più che mai vivo. Pare questa una delle motivazioni psicologiche di quella innovativa “opera ultima” costituita da Falstaff, “commedia lirica in tre atti”, come recita il frontespizio dell’edizione Ricordi datata 1893.

Quale straordinario “oggetto sonoro” (e drammaturgico) realizzarono, con Falstaff, Giuseppe Verdi e Arrigo Boito, suo librettista anche dei precedenti Simon Boccanegra (nel rifacimento del 1881) e soprattutto Otello (1887)? Dopo il totale declino, avvenuto già alcuni decenni prima, dell’opera buffa, il musicista scrive per l’appunto un congegno di tal genere, divertendosi come un matusalemme matto a sberleffare non solo il mondo del melodramma italiano, ma anche e soprattutto la rigida società borghese post-unitaria, che pare egli non gradisse molto, a dispetto delle attese che il musicista stesso, col suo agire politico, aveva contribuito a ingenerare.

Con questi intendimenti, i due artisti scelgono e rielaborano con grande intelligenza alcune opere di William Shakespeare, tenendo come perno di tutta la vicenda il personaggio di sir John Falstaff. Questo gaglioffo e impenitente donnaiolo, infatti, è presente con tratti affatto differenziati sia nell’Enrico IV che nell’Enrico V, divenendo poi mero oggetto di una serie di burle nella commedia Le allegre comari di Windsor.                      

Una scena dello spettacolo
Una scena dello spettacolo


 

Boito decide, da parte sua, oltre a realizzare un libretto dall’altissima qualità poetica e letteraria, di far emergere con maggior spessore il personaggio, costruendo un plot narrativo perfetto, in cui Falstaff fuoriesce dalla semplicistica macchietta in cui era stato relegato nelle Comari, acquisendo spessore e carattere. Verdi aveva bisogno di un protagonista psicologicamente più complesso perché, partendo dalla sua levità, doveva rivestirlo di una funzione importante, in quel momento, per il musicista di Bussato: esprimere uno sguardo ilare ma nel contempo dolente sulla realtà. Dall’opera del grande bardo i due artisti attingono dunque non solo temi e personaggi, ma anche un esprit che evidentemente avevano urgenza di trasmettere o, almeno, di estrinsecare compiutamente.

Ecco quindi il senso profondo di quel “tutto il mondo è burla” che, a partire proprio da Falstaff, tutti cantano in forma di fuga finale accompagnata per otto voci, geniale colpo di coda del Maestro perché scardina i dettami dell’opera ottocentesca, brano intorno al quale tutta la partitura è stata costruita. Verdi, peraltro, non si limita a questo. Egli opera in una direzione innovativa per tutto l’impianto musicale, aprendo i cosiddetti “numeri chiusi” ad un declamato che in ogni momento, come aveva già rilevato Massimo Mila, può diventare espressione melodica così come declinare rapidamente, accostandosi così alle novità che Wagner andava teorizzando e introducendo nella pratica operistica.

Sembra perfettamente coerente a questa prospettiva la scelta del sovrintendente Giandomenico Vaccari, per la Fondazione Petruzzelli e teatri di Bari, di incaricare Roberto De Simone quale regista di questa formidabile opera verdiana. Il compositore e musicologo napoletano vira ancor più la rappresentazione scenica di Falstaff verso una leggerezza di stampo mozartiano (il Mozart di Così fan tutte, in particolare), allestendo, grazie a Nicola Rubertelli, uno spazio ovale aperto, delimitato solo da eterei veli, che intende richiamare alla memoria il famoso teatro shakespeariano Globe, spazio impegnato e ingombrato in modo più evidente solo nel secondo quadro del terzo atto, dalla grande quercia di Herne.


 

Un momento delle prove: Roberto De Simone e i cantanti
Un momento delle prove: Roberto De Simone e i cantanti



 

In realtà, attraverso la trasfigurazione Shakespeare-Verdi (con Boito)-De Simone, i personaggi risultano muoversi in un mondo magico che tutto e tutti coinvolge, anche i “sir” e più abbienti come il geloso Ford; un mondo che realizza la propria apoteosi — in una forma “a matrioska” di messinscena nella messinscena — nel vorticoso finale del bosco delle fate e dei folletti. Per De Simone questo aspetto è di primaria importanza e, d’altro canto, non si tratta di un approccio incoerente: persino analizzando il Falstaff da un punto di vista strettamente musicale affiorano, qui e là, temi e ritmi di chiara derivazione “popolare”, come nell’aria cantata da Alice (una efficace Paoletta Marrocu) «Avrò con me dei putti che fingeran folletti» o quella parte dell’ultimo quadro in cui il protagonista è fatto oggetto di ogni sorta di vessazioni dagli altri personaggi, creduti fate e folletti del bosco.

Col suo «Ahimè! Tu puzzi/come una puzzola» rivolto a Bardolfo, è  proprio Falstaff ad attivare, dal punto di vista ritmico (in ternario) la sarabanda in questione, che subito è ripresa dai “molestatori” («Pizzica, pizzica/Pizzica, stuzzica/Spizzica, spizzica/Pungi, spilluzzica»). Il turbinio di epiteti sdruccioli sembra sorprendentemente rimandare — anche dal punto di vista fonetico — a note espressioni musicali tradizionali da danza dell’Italia meridionale. Su queste basi non appare strano o straniante che De Simone abbia utilizzato delle figure femminili, vagamente orientaleggianti nei vestimenti, le quali fungono da stage servants al semplice ma evocativo suono di tamburelli e tammorre, in particolare nei cambi di scena. D’altro canto, come sempre per il maestro partenopeo, l’intento registico non è certo filologico (lo dichiara esplicitamente in una intervista pubblicata nel bel libretto di sala, curato da Dinko Fabris) ma di reinvenzione artistica, innovativa ma rispettosa.

L’energica guida musicale del giovane Sebastian Lang-Lessing ha fornito colore e fascino, a dire il vero con una certa discontinuità, ad una ottima Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari e al Coro della Fondazione Petruzzelli, quest’ultimo preparato da Franco Sebastiani, tutti impegnati in un una complessa partitura di non facile esecuzione. Pur se con alcune difficoltà dovute a mali di stagione, il cast vocale ha offerto mediamente una buona prova, in particolare quello femminile (la già citata Paoletta Marroccu, Elisabetta Fiorillo che interpreta mirabilmente Mrs. Quickly, Roberta Canzian che è una interessante Nannetta e Marianna Cappellani nei panni di Meg Page), nonché il baritono Luca Salsi (Ford), i due “folletti” voltagabbana Bardolfo e Pistola, interpretati magistralmente da Stefano Pisani e Antonio De Gobbi (grandi applausi per loro), il giovane e bravo tenore spagnolo Antonio Gandia che, nel ruolo di Fenton, è stato poi più che egregiamente sostituito nella seconda recita da Leonardo Caimi, e infine Luca Casalin, un buon dottor Caio.

Un discorso a parte deve essere riservato all’interprete di sir Falstaff, il basso Ruggero Raimondi perché, al di la della mera dimensione vocale e del notevolissimo curriculum, non è sembrato adeguato alle caratteristiche del personaggio, che necessita di notevoli ed eclettiche capacità recitative, tra comicità e tensione drammatica, il tutto intriso di quella levità che, purtroppo, appare estranea al Raimondi visto a Bari. Egli è, invece, un Falstaff invecchiato, appannato e disilluso, e occorre un notevole sforzo per vedervi l’autoreferenziale playboy, egocentrico e credulone, caratterizzato da Verdi e Boito.

Una menzione meritano i costumi di Zaira De Vincentiis, collaboratrice stabile di De Simone, che si rifà ad una iconografia ottocentesca, in particolare tenendo a mente le opere pittoriche d’ambientazione shakespeariana di Johann Heinrich Füssli.

 


Falstaff
di Giuseppe Verdi




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