Momento di svolta nella drammaturgia donizettiana, Lajo nellimbarazzo dodicesimo lavoro operistico di un catalogo che avrebbe sfiorato i settanta titoli segna il passaggio di Donizetti dalla cristallizzazione della farsa alla mobilità della commedia, da un melodramma giocoso fatto di “tipi” ad uno fatto di “caratteri”. Nonostante le reminiscenze rossiniane, Lajo (1824) è davvero unopera dei tempi nuovi: un risultato che fu possibile ottenere grazie alla forza satirica, innestata su un perfetto meccanismo teatrale, della commedia del romanissimo Giovanni Giraud da cui prende le mosse (ne restò incantato anche Gogol). La sapienza linguistica del libretto di Jacopo Ferretti fece il resto.
Non fu un transito stilistico definitivo: un radicato senso del comico “puro”, e un sano pragmatismo che lo rendeva sollecito a ogni tipo di committenza, avrebbe ancora indotto Donizetti a misurarsi con la farsa dantico conio e basti pensare a un capolavoro come Il campanello. Così, di lì a poco, il musicista tornò sui propri passi, realizzando per il pubblico di Napoli una stesura dellAjo in dialetto partenopeo con dialoghi parlati al posto dei recitativi intitolata Don Gregorio, spostando nuovamente lago della bilancia verso una più schematica pochade: lambientazione napoletana toglieva mordente a una commedia che trovava le pennellate più urticanti nella descrizione della nobiltà romana, bigotta e papalina, dinizio Ottocento.
Inutile dunque chiedere a Don Gregorio lindagine di “quel bel guazzabuglio del cuore umano” (ancora Giraud: Il galantuomo per transazione) che per il commediografo romano rappresentava il polo di riferimento. Ma quanto esce dalla porta, in termini di realismo dambiente e psicologia di caratteri, Donizetti lo fa rientrare dalla finestra in termini di musica: rispetto allAjo nellimbarazzo i personaggi qui perdono spessore teatrale e acquistano grandeur vocale. Ne risultano ingigantiti soprattutto i due “amorosi”: vengono riscritte, assurgendo ad assai maggiore complessità, le cavatine di soprano e tenore; e per questultimo, in particolare, si tratta di unautentica scalata di sesto grado, che si potrebbe tranquillamente supporre concepita per un grande melodramma “serio”.
La regia di Roberto Recchia scompagina ulteriormente le carte, operando grazie anche alla riscrittura dei dialoghi, curata dallo stesso protagonista Paolo Bordogna una vera e propria revisione drammaturgica. Spostando lorologio di circa un secolo, il regista trova nellItalietta dei primissimi anni del fascismo (a un tratto si sentono canzoncine depoca e la voce del duce, propagate da una radio accesa) un plausibile equivalente della Roma (o Napoli) perbenista e sessuofoba raccontata da Giraud e Donizetti, con il filoclericale Marchese Antiquati trasformato in un funzionario dun ipotetico Ministero per la pubblica moralità. Parallelamente, a misura che lazione si dipana, la regia preme sempre più il pedale della pochade: qui lajo Don Gregorio, nonostante sembri aver raggiunto la pace dei sensi, ha il vizietto del travestitismo, sicché il clou della messinscena lo vede trasformarsi da austero precettore in cameriera con grembiulino e tacchi a spillo. Daltronde, nellepilogo concepito da Recchia e Bordogna anche gli altri personaggi chi per necessità di camuffarsi, chi per proprio gusto si trasformeranno in altrettanti transgender: quasi un contrappasso per unopera dove quasi tutti sembrano caratterizzati da una marcata misoginia, ma lunico vero motore attivo della vicenda è il soprano, non a caso in pantaloni nel finale.
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Certo: ci allontaniamo ulteriormente dallo spirito della commedia di Giraud, a questo punto ridotta a mero canovaccio. Tuttavia il regista imprime al gioco dei travestimenti il tocco leggero di chi ha studiato la lezione del Billy Wilder di A qualcuno piace caldo, mantenendosi sul crinale del pecoreccio senza oltrepassarlo. Solo nel trasformare la cameriera Leonarda da donna matura, ma ancora capace di suscitare le tempeste ormonali del marchesino Pippetto, in autentica befana (quando le viene strappata la parrucca scopriamo unorrenda vegliarda) si avverte una forzatura: la gag è divertente ma stonata, togliendo plausibilità al personaggio.
Lemergente direttore Michele Mariotti, che nel recente Simon Boccanegra di Bologna ha dato limpressione di aver tentato il passo più lungo della gamba, affronta qui una partitura meno perigliosa in termini di profondità danalisi e più adatta a mettere in luce i pregi di questa giovane bacchetta: scorrevolezza narrativa, flessibilità di accompagnamento, nitore del disegno delle linee strumentali. Gli si potrebbe forse chiedere un nerbo maggiore nella Sinfonia, dove peraltro viene ben resa la progressività dei “crescendo”, e una più empatica capacità di seguire il fraseggio dei cantanti. Ottiene comunque sonorità pregevoli dallOrchestra Sinfonica Rossini, così come si fa onore il coro di Fano, chiamato in questopera a svolgere un ruolo quello della servitù vista come personaggio commentatore della vicenda che Donizetti replicherà nel Don Pasquale.
Il cast è di valore eterogeneo, ma tutti appaiono molto funzionali. Bordogna non è un cantante che sappia imprimere a Don Gregorio la stilizzazione stralunata di Enzo Dara (1984) o la plasticità quasi molieriana di Renato Capecchi (1959), per limitarsi ai due più autorevoli precedenti discografici del personaggio. A torto o a ragione, è uno degli elementi più quotati dellattuale nouvelle vague di “buffi”: unemissione in difetto di rotondità ne ha fatto, finora, un rossiniano poco convincente, ma la scrittura dellajo donizettiano tendenzialmente spianata e “parlante” gli consente di mettere a frutto le sue qualità di robusto dicitore e cantante-attore sapido, eppure mai sopra le righe.
Unemissione quanto meno discutibile (in pratica è costretto ad arroccarsi sul ‘forte, i tentativi di cantare piano risolvendosi in suoni afoni o falsettanti), unita a un timbro sbiancatissimo, è anche quella del baritono Bruno Taddia, che del suo maestro Paolo Montarsolo sembra aver preso certi limiti di fonazione, ma non quelle superiori capacità di fraseggiatore che facevano dimenticare le magagne del vocalista. È un peccato, perché la presenza è di quelle che bucano il palcoscenico e anche sul piano canoro Taddia riesce, in parte, a farci assaggiare la fitta coloratura con cui Donizetti ha disegnato la linea vocale del Marchese Antiquati.
Chi invece ha un controllo pressoché impeccabile del proprio strumento è Danilo Formaggia, che supera con scioltezza gli scogli della propria micidiale, acutissima aria. Pilotaggio del suono e dizione sono quelle del grande cantante “tecnico”, ma anche il commediante è spigliatissimo: insomma un tenore che recita come i tenori di solito non fanno e canta come i tenori dovrebbero fare (ma fanno di rado). Elizaveta Martirosyan ha un registro acuto un po troppo aguzzo e si permette qualche aggiustamento nel pirotecnico finale, ma è briosa e sentimentale al punto giusto. Nella parte di caratterista, nominalmente mezzosopranile, dellattempata Leonarda (un po Marcellina delle Nozze di Figaro, un po Berta del Barbiere di Siviglia), dietro il nome di Leopolda Malabaldi troviamo Anna Malavasi, soprano lirico aduso a ruoli di primo piano: gli affondi gravi non le giovano, né rivela particolari doti comiche, sicché è consigliabile che torni al proprio registro vocale e ai propri consueti personaggi. Vicenη Esteve è un Pippetto scemo e ridicolo come si conviene.
Lo spettacolo nato due anni fa al festival di Wexford, in Irlanda si era già visto a Bergamo qualche settimana prima, con un cast parzialmente diverso. A Fano ha avuto il valore aggiunto di andare in scena il sabato di Carnevale: unoccasione, per il bellissimo Teatro della Fortuna, di ripristinare lantica tradizione del ballo mascherato in platea dopo la recita. In questa prospettiva, il fatto che lallestimento fosse giocato sui travestimenti acquistava, per così dire, un senso in più.
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