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Il fantasma del palcoscenico
A partire dal 2008 chiederemo ad alcuni scrittori di regalarci un racconto per ognuna delle stagioni dell'anno. Cominciamo con Alberto Severi, giornalista, drammaturgo e narratore.

di Alberto Severi
  Valeria
Data di pubblicazione su web 09/01/2008  
Abbiamo chiesto ad Alberto Severi, giornalista e scrittore, un racconto che facesse da segnacarte per il nuovo calendario del 2008. Ovviamente, i riferimenti a fatti e persone reali sono puramente casuali.


 

Quanto vado a raccontare accadde, più o meno, una quarantina d’anni fa, nel primo decennio del secolo.

Nel centro storico della nostra città, allora intatta, era ancora in piedi, dove adesso sorgono, di fianco l’una all’altra, la Maison Collective dei Giovani Stilisti e la Moschea Sefardita, l’antico, seicentesco Teatro del Pàmpino.
All’epoca, anch’io ero ancora abbastanza giovane. Avevo passato da poco i quarant’anni. Lavoravo come giornalista – sebbene un autorevole uomo politico di quel periodo avesse bollato l’espressione come una contraddizione in termini – in una emittente televisiva di una certa importanza, e avevo deciso di terminare in bellezza un mio documentario speciale sul Teatro del Pàmpino, la sua storia, le sue prospettive future legate al rilancio come Teatro Stabile Regionale, con una poesia. Una poesia d’argomento teatrale, s’intende: “Sipario”, composta, con uno stile un po’ antiquato, ma per me affascinante, da un poeta minore del secolo scorso, Saverio Benassai.
Il direttore per poco non cadde dalla sedia.
«Sei scemo», disse. «Già una trasmissione sul teatro la guarderanno in tre gatti. Col Parkinson. Mettici la poesia, e perdi anche quelli. Saverio Benassai!»
«Aspetta», gli dissi. «Guarda un po’ questa.»
Gli mostrai una foto di Valeria, e lui si convinse.
La poesia l’avrei fatta recitare a lei.
«Però. Bella fica, te la scopi non è vero? Allora va bene. Buca il video. Falla mettere scollata.»
Non credette nemmeno per un istante ai miei dinieghi: pensò che ero un signore, a negare, ma che non c’era il minimo dubbio sul fatto che me la scopavo.
Sennò perché.

Valeria era brava. E soprattutto bella. Dovrei dire: “ancora piuttosto” bella, perché la prima giovinezza era sfiorita, e la sfortuna e i rovesci di una carriera costellata di frustrazioni e fallimenti le avevano segnato un po’ il viso. Ma Nicola, l’operatore, avrebbe evitato i primissimi piani. E Beppe Artino, lo specializzato di ripresa, un ragazzo sardo che tutti chiamavano per cognome come se fosse il nome di battesimo, era un mago dei quarzi: rughe e occhiaie, del resto ancora solo accennate, sarebbero scomparse, dissolte in un bagno di luce. Poi, la folta massa di capelli ramati, lo sguardo inquieto, e la magnifica bocca vaginata, con il piccolo rialzo centrale del labbro superiore a mostrare sempre, di là, nell’esiguo orifizio dischiuso, l’osseo candore degli incisivi, come una promessa minacciosa, avrebbero fatto il resto. Infine c’era il corpo, si capisce, che conoscevo anche troppo bene: ma non volevo giocare sull’esibizione volgare che ormai, in televisione, inflazionava anche i programmi per bambini e le previsioni del tempo.

Alludere, alludere, elidere.
«Sei sicuro che vuoi me? Ti rovini la piazza.»
Valeria, a nemmeno quarant’anni, aveva perso tutti gli autobus, e si era fatta terra bruciata, all’intorno, col suo carattere spigoloso di indomabile rossa naturale. La sua franchezza, la sua totale assenza di diplomazia, scambiate spesso per presunzione e arroganza, le avevano alienato le simpatie del gretto sistema di potere che gestiva l’ambiente teatrale nella nostra città: per non dire di quello televisivo e cinematografico.
Valeria era totalmente incapace di vendersi, e ciononostante passava – soprattutto fra le donne, che, sprezzanti e invidiose, la detestavano – per una puttana. In effetti, lo sapevo per esperienza personale, la dava via con entusiasmo, senza risparmiarsi. Ma anche senza calcolo, a chi le piaceva e a chi voleva lei, che spesso erano le persone meno adatte ad aiutarla nella carriera d’attrice.

Dieci anni prima, uno dei suoi amanti, anche lui un attore, come lei dotato e votato alla dissipazione, soprappensiero l’aveva messa incinta, e poi si era dileguato nell’alcol, perduto in estenuanti tournée fuori mano, in piccoli ruoli nelle fiction di mafia, nell’alzheimer precoce, in una morte sospetta alla guida della sua renault, contro un platano isolato, in pieno giorno, senza traffico.
Valeria si era ritrovata in pancia e poi fra i piedi, a intralciarle la sempre più accidentata strada verso il successo, una bambina petulante, problematica, blandamente autistica, orfana di padre, e presto obesa.
«Certo che voglio te, Vale. Voglio farli schiattare, quelli del Pàmpino.»
Valeria mi disse «caro», e mi fece una carezza sulla guancia, sui peli brizzolati ispidi e malrasati del mio impervio lunedì mattina. Per un attimo, nei suoi occhi torbidi, galleggiarono piccoli lacerti apocrifi della nostra storia, e il profumo di quindici anni addietro, le nostre speranze di un grande futuro insieme: lei sulla scena, io in qualche giornale o televisione di grande prestigio.
L’anno prima, aveva avuto la sua ultima grande occasione quando Paolo Ruzzanti, il grande regista, era diventato direttore artistico del Teatro. Il vecchio aveva perso la testa per lei, arrivando, quasi, a lasciare la moglie, ricca e aristocratica, e facendole fare da primadonna in due produzioni del Pàmpino: una “Medea” incredibile, durissima, ferocissima, e una stralunata tragicommedia balcanica di uno scrittore bulgaro, vivente, o giù di lì, dove Valeria recitava quasi sempre nuda, lattea e sinuosa, folgorando gli spettatori, prima ancora che con la recitazione spiazzante e fuori dagli schemi, con la visione del suo pube fiammeggiante.
Sembrava la svolta, per lei, alla faccia degli invidiosi.
Ma la sfortuna continuò ad accanirsi. Ruzzanti era stato fatto fuori dai giochi di potere fra fazioni del suo stesso partito, il Teatro del Pàmpino era diventato Teatro Stabile, e il nuovo direttore artistico, Franco Fratini, anche lui regista, odiava di cuore Ruzzanti, il suo teatro apparentemente smodato, le sue preferenze estetiche, e sessuali. E odiava la Favorita del Perdente, Valeria. Che così, nel tripudio generale, cadde nuovamente in disgrazia, con le pezze al culo.

«Quel finocchio flaccido», bestemmiava Valeria, perdendo, nell’odio, la correttezza politica e la tolleranza per la diversità che avrebbero dovuto caratterizzare le sue esibite credenziali ideologiche. Lei sosteneva di essere comunista: il che, nel 2008, non si sapeva più bene che significato potesse avere.
«Sono nella merda fino al collo, Alberto. Alla canna del gas.»
Si asciugò una lacrima all’angolo dell’occhio, agra come la goccia spremuta da un limone. Ma il fatto che avessi scelto proprio lei, per chiudere la mia trasmissione sul Teatro del Pàmpino, che l’aveva messa al bando, la divertiva, e le infondeva euforia.
«Fratini diventerà cremisi, a chiazze, come gli succede sempre quando viene messo nel mezzo, e la prossima regia gli verrà più schifa del solito, a quel ruffiano. Mi viene voglia di darti un bacio.»
«E perché non lo fai?»
Non se lo fece ripetere due volte. Con la lingua, mi rivoltò l’anima, come un vomere rivolta la terra bruna e umida, aprendo il solco. Ma ci fermammo lì. Avevamo già dato, tutti e due, molti anni prima.

Il giorno che dovevamo “girare la poesia” – come diceva Nicola – nel retropalco del teatro, le avevo chiesto di indossare un cappotto nero corto, stretto in vita, un po’ da esistenzialista primi anni cinquanta. Ero certo che i suoi capelli rosso-dorati, sciolti sulle spalle, stagliandosi sulla stoffa nera coi loro riflessi metallici, avrebbero fatto in video un effetto strepitoso. Una specie di Brigitte Bardot appena un po’ stagionata, e parecchio più cerebrale, col broncio screpolato dal Mistral, mortifera e amorale.
Arrivò che avevamo già piazzato i quarzi e montato la telecamera sul cavalletto. Da più di mezz’ora. Nicola smaniava. Artino canticchiava una canzone alla moda.
La sala del teatro, i palchi, il loggione erano irrealmente vuoti, scarlatti e d’oro. E sembravano così più preziosi, nella loro assurda, capziosa vanità.
Lei entrò dal corridoio centrale, vestita come una mendicante, o giù di lì. Il viso struccato ed esangue era quasi brutto. Portava il cappotto che avevo chiesto io, e alcuni altri vestiti ripiegati sul braccio, protetti da un involucro di cellophane. In mano stringeva i manici di plastica di una borsa per la spesa, della coop, dove c’erano, indovinai, le scarpe col tacco, le calze velate e i cosmetici per il trucco. Per un attimo, temetti di aver preso una cantonata.
Teneva il mento alzato, con aria di sfida. Riprendeva possesso del “suo” teatro, da cui ingiustamente era stata esiliata. Negli occhi, un po’ asimmetrici, balenava una luce poco tranquillizzante. Forse, aveva già deciso tutto.
«E’ qui, vero? Per cambiarmi, e truccarmi…»
Entrò, da regina, nel camerino adiacente al palcoscenico, quello delle primadonna, o del primattore: dove avevano lasciato la loro impronta corporale e spirituale insieme, e la bava argentea di istrioniche lumache, Ruggero Ruggeri, Marta Abba, la Duse, Memo Benassi, Vittorio Gassman, Salvo Randone, Rossella Falk.

Dopo un po’ che era dentro, sentii chiamare il mio nome di là dalla porta chiusa. Entrai nel caldo cubo di luce, e vidi la Perfezione.
Si era truccata accuratamente il viso, aveva nascosto le efelidi sotto un fondotinta chiarissimo, quasi di biacca, che le conferiva un aspetto struggente di pierrot. I capelli splendevano come una criniera di rame. Ma, per il resto, era ancora quasi nuda: indossava solo slip e reggiseno, le calze nere velate, autoreggenti, e un paio di décolleté col tacco a spillo. Sembrava una foto di Helmut Newton. In una mano mi mostrava il cappotto, nell’altra uno dei vestiti, verde petrolio, che aveva portato da indossare sotto.
«Quale metto: questo, o quello là?»
Accennò col mento a un altro vestito, color rosso fegato, gettato come un cadavere disossato su uno sgabello.
«Ma sono più lunghi del cappotto», obiettai. «Non mi piace che si vedano uscire fuori, dall’orlo. Perché non metti solo il cappotto?»
«E sotto, niente?»
«Sicuro», dissi. «Sotto, niente.»
«Allora, niente niente», disse lei, stirando le labbra in un sorriso diagonale.  Si tolse il reggiseno e gli slip con una rapidità quasi comica, quasi che fossero applicati alla pelle con una striscia di velcro. Il pube si accese come se qualcuno ci avesse sfregato sopra un fiammifero.
Rise.
«Sarebbe bello farlo qui, fra tutti questi fantasmi, che dici?»
Mi prese le mani, e mi attirò verso di lei.

Ma per quanto il mio desiderio si impennasse, il mio maledetto senso del dovere, la consapevolezza dei tempi stretti che ci erano stati concessi dal teatro (quasi a dispetto, quando avevano saputo di Valeria), il rispetto per l’operatore e lo specializzato di ripresa, che ci aspettavano fuori della porta, sul palcoscenico, tutti questi alibi, e la paura di lei che malamente nascondevano, ma soprattutto, una crudele sfumatura grigia che colsi al volo nelle sue iridi maculate, quando mi attirò a sé, e l’incrocio disperato di due rughe, sulla sua fronte, sotto la biacca che già si andava crettando – mi fecero desistere.
«Non abbiamo tempo, tesoro», le dissi. «E là fuori, sentono tutto.»
«E che te ne frega», disse lei arrochita. «Tanto meglio.»
«Non si può, davvero.»
Lei rise, ma diversamente da prima.
«Cazzo. A furia di frequentare tutti questi finocchi, sei diventato finocchio pure te.»
Sorrisi anch’io. Magari aveva ragione.
Ma non rimpiangevo nulla. E ancora meno lo rimpiansi, dopo. Mi sarebbe sembrato di profanare una tomba.
E tuttavia, mentre la guardavo indossare il corto cappotto nero sul corpo nudo, e stringerlo in vita con un di più di rabbia, e di delusione, sottolineando la sottigliezza della vita, e la pienezza dei seni, e dei fianchi, a irridere il mio scarso coraggio virile, mi dispiaceva pensare che non me l’avrebbe mai perdonata.
Mia perduta orchidea nera, fantasma del palcoscenico…

«Okay, andiamo», disse, e passandomi davanti mi alitò sul viso un misto di nicotina, menta e fegato devastato. «Non sai cosa ti sei perso, ragazzo. Peccato, perché non credo ci saranno altre occasioni...»
Uscimmo dal camerino, e Nicola mi ammiccò coi bottoncini di ghiaccio dei suoi occhi celesti in una maniera così allusiva e beffarda che mi sentii avvampare.
«Scusi, signora», fece Artino, «ma devo microfonarla».
«Fai fai, bello», disse Valeria, senza nemmeno guardarlo. Artino, molto imbarazzato, le applicò il microfono con la clip al bavero del cappotto, ma poi doveva piazzare la batteria con l’antennina e far passare il filo.
«Dove…?»
«Non c’è altro posto», disse Valeria aprendo il cappotto e svelando il corpo nudo. «Infilalo lì…»
Artino stava per svenire, strozzato dall’eccitazione.
«All’autoreggente, scemo: cosa avevi capito?»
Le mani di Artino si misero a tremare in maniera così ridicola, che Valeria gli strappò la batteria dalle mani, e la infilò lei stessa sotto la fascia di pizzo dell’autoreggente. «Squadra ben assortita, vedo. Tutti froci.»
Richiuse il sipario sul suo conturbante segreto di pulcinella, e si portò a rapide falcate, ticchettando sui tacchi a spillo, al centro del palco, tra un’americana e una cantinella con un “cielo” di stoffa nera, che erano state ammainate fin quasi a terra dall’altissima graticcia, e sembravano attrezzi per giganteschi trapezisti.
«Da dove si comincia?»
«Da dove si comincia?», chiesi a mia volta a Nicola.
«Da lì va bene», disse, improvvisamente torvo, l’operatore. «Vedi che abbiamo già posizionato i quarzi?» E poi, a voce più bassa. «Di’ alla tua amica che se non la smette di provocare, se lo ritrova ...»
«Zitto, fa’ il tuo lavoro, e non ti preoccupare.»
Le riprese cominciarono.

Valeria doveva dire ogni strofa della poesia cambiando situazione, atteggiamento e postazione, nel vasto ambiente verdastro del retropalco del teatro. Poi, al montaggio, usando le dissolvenze incrociate, avremmo ricostruito la sequenza dei versi, facendo sparire e apparire l’attrice, nei vari luoghi, come uno spettro seducente.
Per prima cosa, avanzò per tutta la lunghezza del boccascena, verso la telecamera, dicendo:

Sale il sipario rosso di velluto,

e mostra il tempo senza senso scorso.
Vibra la nota fessa del rimorso,
e spera il caldo abbraccio di un saluto.

Poi, camminando con la mani in tasca, contro lo sfondo di un muro un po’ scrostato, le corde annodate ad una staccionata a formare matasse voluminose, come sartiame di un veliero, e sull’intonaco bigio la scritta cubitale in stampatello, fatta con la vernice bianca e un mascherino: “Vietato fumare”…

Sorgo perplessa e frale a mezzo il palco.
La voce rotta, senza pianto o riso,
risuona fra le quinte bieche, e il viso
riluce albina maschera di talco.

E ancora (dopo che insieme, con intimità eccitante e dolorosa di adolescenti, eravamo saliti per buie scale interne nell’intercapedine delle spesse mura, attraverso stanze polverose, ingombre di vecchi mobili sfasciati, e lampadari franati sul pavimento, fino al ballatoio sotto la graticcia) la telecamera in zumata la sorprese appunto di sotto in su sul ballatoio a lasciare intravedere l’ineffabile in uno spacco aperto del cappotto, e a dire con stremato languore:…


Fumosa stella del perduto amore

piegò le rotte incerte al mio vagare,
e gloria di naufragi in alto mare
ornò di lauro il crine, e di lucore.

Ero molto soddisfatto Restava da farle recitare, e riprendere con la telecamera, solo l’ultima strofa, la più lunga, quella che diceva:


Ma il cielo si è strappato grigio e viola:

fatto si è, sul gesto mio, sudario,
e in cenere si è sfatta la parola.
Imploro adunque un dio muto e feroce
che cali, o lasci andare, giù il sipario.
E batta l’ala dell’oblìo veloce. 

Non sapevo più bene dove ambientarla.
Avevo esaurito, mi sembrava, le potenzialità estetiche di quel vasto ambiente, pure così suggestivo.
Finché, come dal nulla, si materializzò e mi apparve, addossata alla parete di destra, simile all’elemento di una scenografia gotica, e invece, almeno un tempo, accessorio funzionale della scena, una vecchia scala a chiocciola in legno, che si avvitava elicoidale attorno ad una colonna portante, con un parapetto verniciato di nero, fino a scomparire nella graticcia.
Sembrava quasi che una vaga nebbiolina la circondasse. Mi stupii di non averla notata subito.
«Quella scala: è fantastica. È perfetta. Potresti scendere di là, Vale: sparendo e riapparendo dietro la colonnina centrale. Sembra fatta apposta».
«Sì, genio, ma non vedi?», si intromise Nicola. «È sbarrata da un travicello, e c’è anche un cartello, che dice che è inagibile. Magari il legno è fradicio. «È pericoloso…»
«Ma no», tagliai corto, in preda all’entusiasmo. «Basta salire pochi scalini, fino al primo avvitamento, è un attimo. Facciamo così, provo io. Mi immolo. Se regge me, che peso novanta chili, regge anche Valeria, che è la metà».
«Grazie, amore, ma sono una falsa magra, hai visto, no? Anche tu, vero, hai visto…»
Artino farfugliò imbarazzato, ma le lanciò uno sguardo insieme timido e audace, carico di promesse lubrìche, che per un attimo mi rese geloso.
«Dopo magari ne parliamo.» Si volse, ardita, verso di me. «Lascia stare, tu, caro. Non c’è bisogno che ti sacrifichi. Questo teatro è mio, e non ho paura.»
Cominciò a salire, con sicurezza, leggermente ancheggiando davanti ai nostri occhi che sapevano, sotto, la sua nudità, e già ripassando ad alta voce, trionfale, la strofa che doveva recitare…

Ma il cielo si è strappato grigio e viola:

fatto si è, sul gesto mio, sudario…

«La responsabilità è tua, eh?», mi sibilò, sempre più torvo, Nicola, ed io rabbrividii.
«Lascia stare, Valeria, lasciamo perdere.»
Lei non rispose, finse di non avermi sentito, e continuò a salire.
Scomparve dietro la colonnina, e solo dopo alcuni secondi, interminabili, ricomparve.


E in cenere si è sfatta la parola.


«Okay, allora. Basta così. Ora scendi, che ti riprendiamo.»
Valeria , invece, di nuovo come se non mi avesse sentito, continuò a salire la scala, e a recitare fra sé la poesia.

Imploro adunque un dio muto e feroce
che cali, o lasci andare, giù il sipario.

Sudavo freddo.
«Va bene, Valeria, basta. Lassù è troppo alto, non ti riprendiamo bene, la luce dei quarzi non arriva».

E batta l’ala dell’oblìo veloce. 

La sua figura scomparve di nuovo dietro la colonnina. E la sua voce tacque.
«Valeria!», gridai. «Basta così. Scendi!»
Udii uno scricchiolio. E il cuore si fermò.
«Valeria!»
Tenevo gli occhi così sbarrati, che lacrimavano.
Per qualche secondo, eterno, vidi solo la scala a chiocciola, nera e untuosa, come un catafalco. Poi, come dio volle, la fiammata rossa dei suoi capelli ricomparve dall’altra parte, rimpicciolita dalla distanza. La vidi con un sollievo sterminato, e tuttavia il cuore mi si strinse, davanti alla piccolezza e alla fragilità di quella figura, come se presentisse che sarebbe stata quella l’ultima volta che l’avrei vista.
Valeria continuò a salire, e scomparve di nuovo.
«Valeria!»
La chiamammo per cinque minuti buoni. Minacciandola, pregandola, implorandola, provocandola, finché la disperazione lievitò, fino a invadere il teatro. Un’immane bolla nera d’angoscia.
«Vai su a vedere che è successo, no?», mi aggredì Nicola. Ma le mie gambe erano paralizzate. Lui scosse la testa, e si avventò sulla scala a chiocciola, incurante degli scricchiolii.
Dopo un po’ ridiscese. Aveva gli occhi celesti dilatati, come quelli di un pazzo.
«Non c’è. La scala finisce dove c’è una porticina. Dev’essere andata di là, quella cretina. Ma è buio, e ci sono dei calcinacci, il solaio non mi sembra solido. Io non mi ci azzardo…»
Bisognò chiamare i vigili del fuoco.
Venne fuori che l’enorme edificio del Teatro del Pàmpino, aveva, adiacenti alla sala e al palcoscenico, tutta una serie di ambienti fatiscenti e dismessi, da restaurare: magazzini, ripostigli di attrezzeria, vecchie camere di abitazione per i tecnici o gli attori, da decenni in disuso. Valeria, evidentemente, per fare uno scherzo, o per qualche capricciosa ripicca, si era avventurata di là, in quel labirinto verticale, e fu necessario cercarla per ore ed ore.
Per giorni.
Per settimane.
Ma non venne più ritrovata.

La sera stessa, Miranda, la bambina obesa e problematica, venne affidata alla sorella di Valeria. E non credo che, in seguito, abbia mai rimpianto la madre più di tanto. Dopo un po’ cominciò a dimagrire, a modellarsi, a somigliare a Valeria, e diventò bellissima, come sanno tutti – o almeno tutti quelli che seguono l’Olovisione.
Il mio documentario non andò mai in onda, ed io, dopo un periodo di malattia che mi lasciò smagrito e senza capelli, mi licenziai, e ripresi il mio posto all’Università.
Rimisi piede in uno studio televisivo solo per lanciare un appello in quel programma che cercava le persone scomparse. Valeria, per qualche ragione sua, forse era uscita da una finestra, sui tetti, e di tetto in tetto, di abbaino, in abbaino, di scala in scala, alla fine, era tornata a terra, e si era nascosta da qualche parte. Vattelappesca il perché.
Qualcuno l’aveva vista? Forse aveva perduto la memoria, o il senno. Che ne aveva sempre avuto poco.
Ma tutte le ricerche, dettero esito negativo. E quando ormai erano passati due mesi, nel Teatro del Pàmpino cominciarono a verificarsi i noti incidenti.
Il primo accadde a fine ottobre. Dalla graticcia precipitò un tecnico della compagnia di Franco Fratini, che, a coronamento della raggiunta maturità artistica, stava mettendo su, ovviamente, l’“Amleto”. Morì sul colpo, schiantandosi sul palcoscenico, dopo un rapido volo perpendicolare di venti metri. I testimoni giurarono che il suo grido di terrore era cominciato parecchi secondi prima che perdesse l’equilibrio.

Due settimane dopo, l’attrice che interpretava la parte di Ofelia, una promettente fanciulla nemmeno trentenne, fu trovata nel bagno del suo camerino, seduta sulla tazza del water, stroncata da un infarto. Non aveva mai sofferto di cuore. I suoi occhi erano sbarrati, la bocca spalancata, una maschera tragica e grottesca. Il bagno era invaso da un odore stomachevole, di merda, e di putrefazione.
Infine, la sera della prova generale, lo stesso Fratini, il regista, il direttore artistico ancora fresco di investitura, come soggiogato da un’insana fascinazione, fu visto avventurarsi sulla scala a chiocciola proibita, ma, giunto a metà, gettò un grido terrorizzato, e si dette a ridiscenderla a precipizio, con passi pesanti di grassone, finché uno scalino si sbriciolò, Fratini perse l’equilibrio, fece una piroetta in aria, e cadde di culo, col suo immane culo da fattrice, su un elemento di scenografia, una picca di metallo appuntita, finendo praticamente impalato. Morì dissanguato, dopo alcuni minuti di atroce agonia, durante i quali, nella disperazione e nell’orrore dei presenti, nessuno poté fare alcunché per aiutarlo.
Lo scenografo, ideatore della picca, fra l’altro fidanzato ufficiale di Fratini, si uccise la notte stessa, ingerendo due interi tubetti di barbiturici.
Il teatro venne chiuso per lutto. La notizia sconvolse la città e l’intero ambiente teatrale. Un giovane attore esordiente, che faceva la parte di Guildestern, balbettando frasi sconnesse, giurò di aver visto sulla graticcia una donna scheletrica, dai capelli rossi scarmigliati, completamente nuda, che aveva spinto Fratini giù dalla scala gridando: «fuori dal mio teatro!»
Suggestioni, abbagli: ma quanto comprensibili.
La fama sinistra che prese ad aleggiare sul Pàmpino, nell’ambiente teatrale facile alla superstizione, fece sì che nessuna compagnia volesse più mettervi piede per venirvi a recitare. Lo Stabile Regionale, appena fondato, fallì nel giro di due anni. La sala venne chiusa, e andò incontro ad un rapido degrado, nonostante il pregio storico e architettonico dell’immobile.
Il colpo di grazia venne dal disastroso attentato terroristico, che alla metà del secolo, con un cupo rosario di bombe collegate, e simultanee, rase al suolo buona parte della nostra città.

Ricordo bene che in quella tragica alba di metà settembre mi aggiravo fra le macerie di via del Pàmpino con gli occhi che lacrimavano sangue e sale, più per la polvere che per il dolore, e raccoglievo in una sporta i reperti che a poco a poco venivo scovando fra i mattoni, il pietrisco e i frammenti di stucchi dorati. Cristalli di lampadari, brandelli stinti di costumi, orlati di nerofumo, e parrucche bruciacchiate.
E ad un tratto, lo vidi.
Vidi cioè spuntare da un mucchio di pietre, ammassate in forma piramidale, un ciuffo di stoppie polverose, una ciocca di rafia, all’apparenza, giallo-ramata, che avrebbe potuto far parte dell’imbottitura di un divano, o di una vecchia parrucca, se, quando la tirai fuori, a forza, dalla connessura fra le pietre, e la presi, tremante, fra le mani, non avesse mostrato, ad un’estremità, come dei grumi o delle zolle di materia giallastra e bruna, appalloccolata e rappresa, e come mummificata.
Lo so. Avrei dovuto sentirmi invadere dalla repugnanza, svenire dall’obbrobrio e dal disgusto, e lanciare lontano, di nuovo nella maledizione delle macerie fumanti, quel reperto macabro.
E invece, con mia stessa sorpresa, baciai piangendo i capelli di Valeria, come li avevo baciati la prima volta, in teatro: con un misto di desiderio, di pietà, di gioia straziante, e di timorosa, disperata venerazione. 
                                                                                        

                                            Firenze, Capodanno 2008 (o 2048)
  Sipario

Sale il sipario rosso di velluto,
e mostra il tempo senza senso scorso.
Vibra la nota fessa del rimorso,
e spera il caldo abbraccio di un saluto.

Sorgo pensosa e frale a mezzo il palco

La voce rotta, senza pianto o riso,

risuona fra le quinte bieche, e il viso
riluce albina maschera di talco.

Fumosa stella del perduto amore
piegò le rotte incerte al mio vagare,
e gloria di naufragi in alto mare
ornò di lauro il crine, e di lucore


Ma il cielo si è strappato grigio e viola:

fatto si è, sul gesto mio, sudario,
e in cenere si è sfatta la parola.


Imploro adunque un dio muto e feroce

che cali, o lasci andare, giù il sipario
E batta l’ala dell’oblìo veloce.









 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


























 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 


 

 






 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 





 











 
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