Carlo Cecchi è – si parva licet componere magnis – come Omero. Ogni tanto si addormenta sugli allori. Ma quando non lo fa è un grande Maestro, uno dei migliori attori possibili. E quanto succede in questi due brevi allestimenti che vengono presentati insieme in unaccoppiata di minimalismo vincente.
Si tratta di tre “dramoletti” di Thomas Bernhard e di Sik-Sik lartefice magico di Eduardo De Filippo. Perfetta, nel primo caso, lesecuzione messa in scena da Cecchi e dal suo eccellente partner, un Elia Shilton eccezionale per tempi e metodi. I due attori scandiscono le battute e i movimenti con larmonia di un duo musicale, misurando le pause e le riprese, le concatenazioni di parole e gesti, in un continuum che conquista lintelligenza e lemozione. Una specie di scherzo musicale che viene esaltato da un testo tanto minimale quanto altissimo per leggerezza. Il protagonista è il regista Claus Peymann chiamato ad assumere la direzione del Burgtheater di Vienna e impegnato a dialogare con la sua segretaria e lo stesso Bernhard, ora nel suo studio ora in casa sua ora in cerca del ristorante. Un delirio di dialoghi senza capo né coda, un concertino sulla nostra demenza borghese quotidiana, e di quella dei teatranti in particolare. Unindigestione di nevrosi a cui Bernhart e Cecchi ci sottongono (la prova dei vestiti, la scelta del ristorante, lansia del partire non minore dellansia dellarrivare, lodio per tutti a cominciare dai teatranti) come a una lavanda gastrica di umorismo, da cui si esce allietati nellintelligenza e nel sentire. Mirabile.
Sik-Sik l'artefice magico
Quasi a dimostrare la variegata gamma del suo talento, nella seconda parte dello spettacolo, Cecchi si riaccosta a Eduardo, a uno dei testi più leggeri e, in fondo, sofisticati dellattore napoletano: fortunatamente privo di troppe implicazioni ideologiche. Insomma il migliore Eduardo possibile. Qui il prota gonista (Cecchi, ovviamente) è un guitto senza arte né parte, in gran parte svogliato e alquanto imbroglione. Deve allestire uno spettacolo di predigitazione ma ha perso il partner che deve aiutarlo nellimbroglio, accanto a lui è una scimunita assistente e un improvvisato collaboratore; arrivato in ritardo, il collaboratore abituale, renderà ancora più complicata la situazione. Forse un critico intellettuale potrebbe rinvenire nella situazione una metafora del teatro diviso tra gioco premeditato e gioco improvviso. Chi scrive (essendo solo un professore) non ci vede altro che lingegno creativo di un attore che scriveva (Eduardo) e quello di un attore che, per fortuna, solo recita (Cecchi).
E recita, Carlo Cecchi, anche qui con piena soddisfazione sua e del pubblico, improvvisando più o meno su un copione fatto apposta per dare aria alle battute. Tanto quello di Bernhard è un testo dalle concatenazioni obbliganti e vertiginose, così questo è fatto di calcolate smagliature, vuoti a perdere, strapiombi improvvisi, esagitazioni impazzite. E Cecchi con i suoi eccellenti compagni, tutti e tre calibrati strumenti di un quartetto darchi alla deriva, dà vita a una divertentissima disperazione. I giochi di prestidigitazione falliscono miseramente per linvolontario sabotaggio dellassistente incapace che ha sostituito il complice esperto e fannullone. Lo spettacolo nello spettacolo è un totale disastro, ma un successo comico strepitoso per un grande attore in grande vena.
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