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Perdere l'innocenza

di Filippo Bologna
  "Paranoid Park"
Data di pubblicazione su web 13/12/2007  
Per sempre giovani nella grazia immortale del gesto, gli skaters rollano ai bordi della pista e si tuffano nella vasca di cemento come delfini in un acquapark. Le tavole nuotano leggere, quasi senza gravità nella fotografia di Cristopher Doyle, il direttore della fotografia di Wong Kar Wai (2046), accompagnate da riverberi e musiche liquide e oniriche, tanto belle da sciogliere il cinema nel sogno come nelle indimenticabili sequenze acquatiche dell’Atalante di Jean Vigo. Ci sono momenti di rara bellezza in Paranoid Park, l’ultimo capitolo del lavoro che Gus Van Sant porta avanti da anni sul disagio di una generazione (Gerry, Elephant, Last Days). Una generazione che più che perduta non si è mai trovata questa degli adolescenti americani di inizio millennio (così sinistramente simili ai nostri). Sono ragazzi nati con George Bush e la guerra in Iraq, che si ritrovano quasi vent’anni dopo con George W. Bush e la guerra in Iraq, con la trascurabile differenza di una "double u" puntata e la possibilità di scaricare da Youtube l’esecuzione di Saddam filmata con un videofonino. Sono ragazzi "normali", sono ragazzi come Eric Harris e Dylan Klebold, che hanno ucciso 12 studenti e un professore alla Columbine prima di spararsi, o come Seung Hui-Cho, lo studente coreano che dopo aver lanciato deliranti proclami dal suo blog ha massacrato 32 persone in quello che è passato alla storia come il Virginia Tech Massacre, la più grande carneficina scolastica di tutti i tempi - "shootin’ school" come l’hanno ribattezzata subito gli amanti del genere nella loro ansia tassonomica (esiste persino una raggelante categoria su Wikipedia).



Alex, il protagonista di Paranoid Park è un ragazzo come loro, come tanti, porta le stesse felpe col cappuccio, gli stessi cappellini da baseball, gli stessi jeans da rapper, ha la stessa tavola da skate. Un giorno con l’amico Jared decide di andare a Paranoid Park, un parco di Portland dove vanno ad allenarsi gli skaters più in gamba, dove bivaccano hippies, graffitari e perdigiorno, un postaccio insomma. Solo che Alex non si sente ancora pronto per Paranoid Park ma del resto "Nessuno è mai pronto per Paranoid Park", gli ricorda l’amico Jared. Ed ecco che in quel preciso istante-cinema (è il cinema cos’è se non un’infinita somma di istanti?) quello in cui Alex decide di seguire Jared nella trasferta a Paranoid Park, la sua vita cambierà per sempre. Alex, lasciato solo dall’amico che se la batte come un coyote in calore per inseguire la vaga promessa di una notte di sesso, si lascia trascinare da un balordo in una bravata che causerà la morte di un sorvegliante della stazione ferroviaria. Non c’è nient’altro da sapere su questa storia, nessun colpo di scena, nessuna risoluzione ad effetto. C’è soltanto un ragazzo lasciato solo con il peso della colpa nel deserto emotivo che lo circonda. Il tema è lo stesso da duemila anni, da Sofocle a Dostoevskij, da Hitchcock a Woody Allen: si può convivere con il senso di colpa?



La risposta non la cercate qua perché non c’è, ma nella domanda è il doloroso cuore del film, narrato da Alex in modo non lineare attraverso una lettera-confessione che "salta" continuamente, riprende e s’interrompe, come una connessione internet con problemi di linea. A questo punto Alex diventa un redivivo Raskolnikov, una debole preda cacciata dal mostro del rimorso. Eppure quel ragazzino efebico dal ciuffo biondo forse non è così fragile come sembra: sfugge alla caccia, non perde la calma, resta lucido nel cancellare le tracce del delitto, non si tradisce davanti alle domande incalzanti del poliziotto di turno, non si confessa con la ragazza, né con gli amici, né con quel che resta della sua famiglia fredda e lontana come una galassia morente. Si salva scrivendo una lunga lettera, a sé stesso, per sollevarsi, per assolversi da quel tragico gesto senza movente. La lettera alleggerisce il peso della colpa, e poi brucia incenerendo l’unica verità su quella maledetta notte, cancellando le differenze tra la vita e la morte come in un videogioco di ruolo. Vivere o morire, fa lo stesso se non si assumono le conseguenze dei gesti che si compiono.



Paranoid Park è un film lieve nonostante tutto, la macchina da presa di Van Sant indugia sui bordi della pista da skate board, si sofferma sui lineamenti dolci degli adolescenti, sui corpi glabri dei fanciulli quasi a non voler violare l’innocenza della giovinezza (e del cinema?) a preservare la purezza dell’immagine, che a volte sembra tenuta volutamente fuori dalla pista sporca della vita. La fotografia che alterna livide sequenze in Super 8 a nitide aperture in 35mm è semplicemente magistrale, le inquadrature di Van Sant otturano il padre e sfuocano la madre per restituire l’opacità affettiva di Alex. La musica è superba, i primi piani sonori delle tavole che grattano sul cemento, una colonna sonora che sa essere languida o martellante, che raggiunge effetti stranianti quando passa dall’hip-hop alle musiche felliniane sovrapposte ai volti smarriti degli adolescenti. Anche troppo raffinato. Tutto sembra perfetto, forse, ripeto, fin troppo. I ragazzi sono tutti belli e puliti, e la normalità è troppo normale per non denunciare un certo grado di artificiosità. E poi a volte si coglie con una punta di fastidio un certo compiacimento nello sguardo geloso con cui il regista carezza i corpi e i visi dei suoi efebici adolescenti.

Nel film c’è una sequenza in cui Alex perde la verginità per opera di una biondina molto determinata, e poi, dopo aver consumato distrattamente, la lascia. Forse Paranoid Park è di questo che parla, della perdita della verginità, o dell’innocenza, che sono poi la stessa cosa. Ma Van Sant lascia intravedere la disperata possibilità di ricominciare, di rifarsi una verginità, una vita forse, se solo si è capaci di ricacciare nell’abisso i demoni che ci portiamo dentro. Ma se anche fosse questa la terribile verità, se si potesse davvero tornare a saltare, dopo Paranoid Park lo skate non volerà mai più in alto come prima.




Paranoid Park
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