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Ricordo di Maurice Béjart

di Gabriella Gori
  Maurice Béjart
Data di pubblicazione su web 04/12/2007  

Maurice Béjart ci ha lasciati. Un’altra luce del firmamento coreutico si è spenta lasciando la danza “percossa e attonita” al “nunzio” della morte, avvenuta a Losanna giovedì 22 novembre.

Malato da anni, il coreografo ha affidato al Béjart Ballet Lausanne il suo testamento coreografico che sarà ‘letto’ a dicembre con il debutto de Il giro del mondo in 80 minuti, l’ultima fatica dell’instancabile “grande vecchio” marsigliese.

La morte dunque si è portata via il corpo, non lo spirito di Béjart che invece continuerà ad aleggiare  perché Maurice, come diceva Orazio, ha saputo erigere un “monumentum aere perennius” (un monumento più duraturo del bronzo) e sconfiggere l’inarrestabile scorrere del tempo.   

E proprio il poeta di Venosa ci offre l’epitaffio per ricordare l’artista francese che ha segnato la storia della danza e del balletto del Novecento: “Non omnis moriar, multaque pars mei / vitabit Libitinam” (non morirò interamente e molta parte di me eviterà la morte).

Volendo infatti commemorare la figura di quest’uomo di spettacolo a 360 gradi quello che interessa è cogliere gli aspetti più innovativi della sua ‘azione teatrale’ che si è concretizzata in circa 250 lavori alla base delle quali c’è una precisa idea dello spettacolo di matrice wagneriana, il desiderio di superare i confini geografici dei linguaggi danzati e danzanti, la necessità di far esibire Tersicore in luoghi atipici come stadi, piazze, arene, giardini, e la pervicace convinzione che – come amava ripetere - “la danza è unione, unione dell’uomo con l’uomo, dell’uomo con il cosmo, dell’uomo con Dio”.

Nato a Marsiglia il 1 gennaio 1927 e figlio del filosofo Gaston Berger – Béjart è nome d’arte -  il coreografo ha avuto una formazione accademica e nel 1964 ha iniziato la carriera di ballerino. Ma è con la direzione nel 1954 de Les Ballets de l’Etoile, diventati nel 1957 le Ballet Théatre de Paris, e nel 1960 con la fondazione del leggendario Ballet du XXème Siècle di Bruxelles, chiuso nel 1987 per dare vita al Béjart Ballet Lausanne, che il suo percorso poetico si indirizza verso la creazione personale.

Aperto alle influenze dell’Oriente e delle religioni monoteiste, fautore di un sincretismo filosofico-religioso e della coerenza e intelligibilità del discorso rappresentato, cioè dello spettacolo come evento totale, Béjart ha contribuito ad innovare la tradizione orchestica della vecchia Europa e anche la stessa didattica nelle scuole multidisciplinari annesse alla due compagnie, il Mudra di Bruxelles e il Rudra di Losanna.

Grazie a lui la danza accademica si è incontrata non solo con quella moderna ma anche con quella orientale, africana, indiana, greca, ebraica, e perfino con le arti marziali, facendo del balletto un centro di interesse della cultura artistica contemporanea e l’espressione di una “coreosofia” militante di ‘millossiana’ memoria. Ovvero di una presenza etica del danza nella società che lo porta da un lato a sottrarre il balletto alla circuitazione elitaria, spostandolo in spazi non canonici, e dall’altro a scandalizzare dissacrando miti che sembravano intoccabili, affrontando temi scottanti, cercando collaborazioni clamorose. Insomma trasformando la danza e il balletto in un megafono per svegliare le coscienze e partecipare a quel profondo cambiamento di idee e costumi avvenuto nel secondo Novecento, a cui la danza di Maurice non poteva restare estranea o peggio ancora indifferente.

E se tutti i luoghi, tutti gli argomenti erano degni di Tersicore anche le musiche non dovevano avere confini e quelle amate dal “marsigliese” spaziavano da Wagner, a Boulez, da Ravel a Stockhausen, da Strauss a Schonberg, da Haydn a Schaeffer, da Mozart a Mahler, da Bach a Ravel, da Berlioz a Stravinskij, senza escludere il pop, il rock, il jazz, le melodie asiatiche, nel convincimento che le note,  anche frante e frammischiate, fossero partecipi dello spettacolo e non elemento accessorio della danza.

La forte e innovativa personalità di Maurice appare fin dal 1955 con Symphonie pour un homme seul, si definisce e arricchisce con Le Sacre du printemps del 1958, Bolero del 1961,  La Damnation de Faust e La IX Sinfonia di Beethoven del 1964, L’uccello di Fuoco del 1970, Nijinskij clown de Dieu del 1971, Chant du compagnon errant del 1975, per continuare negli anni Ottanta con Dionysos, The Kabuki e Bagaku, negli anni Novanta con Le Presbythere, Schiaccianoci, L’heure exquise, fino alle produzioni del nuovo millennio che lo vedono ancora attivo con Brel e Barbara e La vie du sanseur, recontée par Zig et Puce.

Una ballettografia davvero sconfinata che ha avuto grandi interpreti fra i quali vale la pena di menzionare Jorge DonnPaolo Bortoluzzi, Rudolf Nureyev, Carla Fracci, Sylvie Guillem, Luciana Savignano, Grazia Galante, Miche van Hoecke,  e di cui è impossibile ripercorrere tutti i rivoli se non per sommi capi ma di cui è possibile cogliere il significato e il messaggio profondo.

Uomo di teatro cosmopolita Béjart ha assegnato alla danza e al balletto l’arduo compito di occuparsi della condizione umana in una particolare forma di spettacolo che parla “dell’uomo all’uomo” e si fa interprete di temi fondamentali e attuali quali le lacerazioni profonde dell’animo, il caos, l’incombere dell’alienante tecnologia meccanica, lo scatenamento degli impulsi sessuali, la solitudine, l’aspirazione alla pace e all’amore in un mondo fatto di odio e violenza.

Tutte tematiche da cui traspare la valenza etica e non solo spettacolare della ‘azione teatrale béjartiana’ sempre e comunque attraversata da un’inestinguibile desiderio di rinascita e di vita. Quella vita che se si è spenta nel corpo di Béjart a ottant’anni, continuerà a palpitare in eterno nel corpus dei suoi balletti.     




 
 

 

 

 

 

 

 

 


 

Maurice Bèjart
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 








 
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