Vi sono rappresentazioni che, attraverso un uso improprio della metonimia, consegnano alle tavole del palcoscenico lidea che le ha generate, priva però della sua traduzione in evento teatrale.
Lo spettacolo E vietato digiunare in spiaggia – ritratto di Danilo Dolci – presentato per la prima volta nellambito dellultima edizione del Mittelfest e portato in scena in prima assoluta al Teatro Valle di Roma – vuole proporre allattenzione del pubblico il ritratto di una personalità di tale levatura, senza troppo riflettere sulla cornice scelta per tale commemorazione. La scena, che si svela allo sguardo dello spettatore ancor prima che si spengano le luci, consiste in tre o quattro teli stesi su delle funi che intersecano il palcoscenico da un lato allaltro. Nel corso della rappresentazione gli attori li apriranno come dei sipari temporali e spaziali che scandiscono il succedersi dei vari momenti dello spettacolo. Il regista Franco Però privilegia gli avvenimenti che caratterizzarono i primi anni di impegno sociale svolto da Danilo Dolci nel Mezzogiorno dellimmediato dopoguerra. Il testo si limita ad un montaggio di citazioni che, messe luna vicina allaltra, perdono di forza e fascino e questo rende la struttura drammaturgica piatta. A guisa di piccole scene, dal profumo di cabaret televisivo, vediamo succedersi alcuni degli episodi cardine della vita di Dolci. Ogni quadro è introdotto o intervallato da cerniere di chitarra e canto che si costituiscono come una sorta di “vox populi” che illustra e spiega allo spettatore quale fosse il contesto siciliano di quegli anni. Fin dalle prime battute, percepiamo lassoluta inadeguatezza, fisica e recitativa, dellattore Paolo Triestino: egli forse ritiene che per incarnare la bontà di un pensiero si debba affidare ad uninterpretazione flebile e sommessa. Gli altri attori, che si confrontano con una difficile recitazione in dialetto siciliano, sono chiamati a interpretare ciclicamente ruoli diversi e non sempre si dimostrano in grado di passare da un registro recitativo allaltro. Tale discrepanza tra attore e personaggio è sottolineata dalla scelta del regista di affidare la forza comunicativa dello spettacolo unicamente alla presenza scenica dellinterprete. Nella teatralizzazione della maieutica, i tre attori nel ruolo di siciliani ignoranti e poveri e lo stesso Triestino, non riescono a “comunicare” la forza di questa tecnica, così affascinante nella sua semplice verità, e cioè lo sforzo, sacro, dellespressione del proprio pensiero che ha come fine il raggiungimento della coscienza di sé. Ciò dispiace soprattutto perchè questa metodologia sarà alla base di tutto il pensiero politico, sociale e poetico di Dolci.
E così anche il digiuno che lui svolse sulla spiaggia di San Cataldo nel gennaio del 1956, insieme ai contadini e ai pescatori di Trappeto, contro la permissività dellordine costituito nei confronti della pesca fuorilegge, che impediva agli abitanti del luogo di esercitare il diritto al lavoro, è aridamente sintetizzato dai quattro o cinque attori e da Triestino che se ne stanno seduti per terra al centro del palcoscenico. A rompere la monotonia della scena, dalla platea un attore, nei panni di un poliziotto, con una voce amplificata da un megafono, intima di sospendere liniziativa e pronuncia la famosa frase “è vietato digiunare in spiaggia” che, nella sua involontaria ironia, rappresentava la visione ottusa e burocratica delle forze dellordine, volontariamente o involontariamente abituate a convivere con un secondo potere che contiene il primo, cioè lo Stato. Anche qui, data la centralità dellevento non solo nel percorso dello spettacolo, a cui dà il titolo, ma anche nella vita di Dolci, che da questo momento desterà un interesse nazionale, ci saremmo aspettati un maggiore sforzo creativo.
Buona parte della rappresentazione è dedicata al processo che ebbe luogo in seguito al primo “sciopero alla rovescia” organizzato da Dolci nel febbraio del 1956 insieme a quattro sindacalisti e a centinaia di disoccupati di Partinico. Alla rovescia perché, anche se lo spettacolo non ce lo fa capire, a caratterizzarlo non fu lassenza dal lavoro, bensì il desiderio disperato di lavorare, che si tradusse nellimpegno collettivo per ricostruire una trazzéra intransitabile.
Il regista affida il ruolo di testimoni dellevento nel processo, a quattro o cinque spettatori avvertiti poco prima dellinizio dello spettacolo. Questa soluzione, oramai abusata, di coinvolgere persone del pubblico – che fino a poco prima abbiamo sentito parlare dei loro problemi di parcheggio – non aiuta a calarci nellepoca degli anni Cinquanta, già così poco raccontati da abiti troppo puliti, da attori che si muovono come uomini di oggi e non di allora e da una totale assenza scenografica. E difficile, inoltre, immaginare che un paio dei non bravi attori che poco prima hanno fatto gli ignoranti di fronte a difficili interrogativi (“sapete che cosè un piano di sviluppo”), diventino poi dei dotti avvocati. Per rendere palpabile latmosfera del processo, il regista fa uso di registrazioni delle reali testimonianze, ma la raffinata tecnologia del Teatro Valle ha generato dei ronzii così fastidiosi che anche quellemozione è svanita. Il ruolo di Piero Calamandrei, la cui difesa fece scagionare Dolci, è interpretato ogni sera da personalità che – così recita il depliant dello spettacolo – “si sono contraddistinte nella difesa della Costituzione, dei diritti civili e della pace”. A noi è toccato assistere alla dizione fastidiosa e antiteatrale di Gherardo Colombo, che è salito in scena dalla platea – per uno strano compiacimento che ritiene di poter fare a meno di un minimo di illusione teatrale – e, finita larringa, è tornato, anche lui compiaciuto di sé stesso, a sedersi fra il pubblico. Ma proprio queste personalità che hanno combattuto per la giustizia, e anche per difendere lonestà intellettuale di un Paese, perché sono complici nelloccupare un ruolo che non appartiene loro?
Ci piacerebbe finire questa recensione con questa domanda in onore del regista Però: ci auguriamo che almeno mantenga le insicurezze di un artista, così come recita il suo cognome.
|
|