Lurlo, presentato in anteprima al Festival di Avignone nel 2004, è lultimo spettacolo con cui il regista Pippo Delbono sta calcando le scene italiane e internazionali da più di due anni, ed è, a scanso di equivoci, uno spettacolo memorabile. Lo scrivo con convinzione, in uno stato emozionale, e, una volta tanto, da semplice spettatore. Forse non bastano i tanti occhi lucidi che alla fine hanno riempito il poco affollato foyer della Pergola di Firenze, e forse non basta neanche quel sipario che non si chiude, come non si era aperto allinizio, per trascinare via corpi, suoni, odori da urlo, appunto.
Tracce dellavanguardia, verrebbe da dire, perchè il sipario che non si apre, e che è già aperto dunque, è una presa di posizione diretta: la contiguità tra palcoscenico e platea, quel legame che allontana il mondo della "finzione" da quello "reale" sembra essere non annullato, certo, ma sospeso, come in un incubo sotterraneo che fa del presunto realismo un caleidoscopio dellanonimità moderna, dove affondare lo sguardo ed essere guardati. La scenografia, che crea a sua volta un secondo palcoscenico, dai colori spenti, morandiani quasi, è uno spazio senza luogo, crea una falsa unità, smentita dallo sviluppo della visione; le scene sono infatti condensate in quadri che si susseguono con precisione brechtiana, introdotti dalla voce off di Umberto Orsini, che racconta, con gravità e pathos, la storia di un uomo solo davanti al mondo.
L'Urlo
Questo continuo scambio tra realismo e finzione (che costituisce di per sé già una riflessione stessa sul teatro e sul significato di ogni rappresentazione) investe lo spettacolo sin dalla prima scena: la tavola bandita e gli attori commensali, che in una confusione sonora si sovrappongono alla voce di Orsini, fanno da apripista alle ombre che, come in una scarna ritualità, si mettono in scena davanti al pubblico, che osserva di volta in volta, come dal buco di una serratura, ciò che accade dentro le pareti "impenetrabili"di questo carcere. La voce off quindi non funge solo da commento, ma accentua quella frattura tra realismo e finzione su cui si gioca il registro dellintero spettacolo: l uso poetico del sonoro permette a Delbono di eliminare la parola drammatica, o meglio di trasformarla in suono, appunto, o sarebbe meglio dire in un indistinto tappeto di sonorità che vanno dallurlo al pianto, dal riso alla musica stessa, suonata in scena da Giovanna Marini e dalla banda di Testaccio.
Il senso alto di questo svuotamento del dramma sta proprio nel riproporlo sotto forma di scheletrico panorama di una società, quella italiana, che si (auto)flagella: la ricca donna che si compiange e affoga nella propria ricchezza, i giovani succubi dellomologazione e della superficialità, il demente chiuso nella camicia di forza, impotente di fronte alla telecrazia, il prelato ridotto ad alto fantoccio di pezza, fino alla mitologia cristiana dellecce homo; in quella che è forse la scena più forte e dissacrante dellintero spettacolo, con un corteo funebre che intona un canto siciliano della Passione, un uomo agonizzante, in panni cristologici, trasforma il mito della morte in una macabra danza, in una serie di movimenti scenici che trasformano lattore in unimmagine, densa di una carica espressionista degna del magistero di Pina Baush: ogni caduta sembra un agghiacciante tonfo nel buio.
L'urlo
Il quadro fosco regala però alla fine, in questo circo vivente di attori, nani, ballerine, saltimbanchi e folli, la dolcezza infinita di una scena che condensa in sé tutto il misero splendore dellintero spettacolo, con un uomo e un bambino che si passano la palla, su quel red carpet che fino ad allora era stato il teatro delle peggiori umiliazioni e delle più tristi vicende umane. Questa scena, unita alla dedica alla madre, ricompone quella frattura tra realismo e finzione su cui aveva giocato Delbono, proiettando in una sorta di mitologia personale lintero urlo, e riconducendo a se lintera triste parabola dell(auto)rappresentazione. Alla fine, quando su questa baraonda poetica si spengono le luci, si ha la sensazione di aver assistito a uno dei più impietosi e potenti ritratti sociali ed umani che il teatro italiano ha concepito negli ultimi anni, una ronde che scalfisce e distrugge le grigi pareti del carcere delle nostre coscienze. Il palcoscenico resta lì, vuoto, come era allinizio, come se questa allucinazione corale non fosse altro che un breve intermezzo tra il dolore e la memoria.
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L'urlo
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Pippo Delbono
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