Lo si sarebbe potuto definire lanti-Brandauer, tutto teso comera a uninteriorizzazione del personaggio capace di sfociare in una particolare intensità interpretativa. La sua forza procedeva dallinterno verso lesterno e nel costruire i suoi personaggi agiva per sottrazione, anziché per accumulazione, come spesso fanno i mattatori, sino ad arrivare al nocciolo duro del personaggio. Parliamo di Ulrich Mühe, lattore premiato con lOscar per la sua interpretazione del grigio poliziotto de Le vite degli altri e prematuramente scomparso questestate alletà di 54 anni. Pubblicata da poco in Germania, la sceneggiatura del film è accompagnata da unintervista del regista Florian Henckel von Donnesmarck allattore, in cui, tra le altre cose si racconta come andò il loro primo incontro. Mühe, che aveva appena letto la sceneggiatura, chiese come si dovesse recitare quel personaggio che per buona parte del film siede in una soffitta, ascolta ed è preda di una continua agitazione interiore. Al che il regista rispose: «Forse, non lo si recita affatto». Era la risposta giusta per un attore come Mühe, che di rimando gli tese la mano e disse: «Bene, lo faccio».
E significativo che nel commentare la sua morte, la stampa tedesco-occidentale, forse, per la prima volta dalla riunificazione delle due Germanie, abbia espresso il dubbio che, forse, non proprio tutto fosse da buttare dellex-RDT, se era stata in grado di produrre attori del suo calibro. Il fatto è che proprio nellincontro tra la grande tradizione teatrale russa e la più recente esperienza brechtiana ha preso vita nella Berlino Est del secondo dopoguerra unesperienza teatrale unica di cui attori come Mühe sono il prodotto. Già, perché Ulrich Mühe, nato a Grimma il 20 giugno 1953 e morto a Walbeck il 23 luglio 2007, prima di divenire uno dei volti noti del nuovo cinema tedesco, era stato un riconosciuto attore teatrale, sovente impegnato nel ruolo di protagonista sui palcoscenici della Volksbühne, del Deutsches Theater e del Berliner Ensemble, quanto a dire i maggiori teatri di Berlino Est: «Egmont, Filottete, Amleto, eroi classici, che adesso apparivano come uomini delicati, troppo piccoli per le circostanze in cui venivano a trovarsi. Gli spettatori – scrive Marcus Jauer sulla «Süddeutsche Zeitung» – lo hanno capito. Si attagliava alla RDT, che reclamava continuamente degli eroi e aveva sempre e soltanto degli esseri umani».
Con la sua morte, ha scritto Jens von Jessen su «Die Zeit» (in una pagina dove il profilo dellattore figura accanto ai ritratti di Bergman e Antonioni), si ha la sensazione di un vuoto difficile da colmare: «Era come Alec Guinness, come Bernhard Minetti uno di quei piccoli uomini, che spesso sono gli attori più grandi. Senza sforzo era in grado di riempire da solo i palcoscenici più vasti. La si chiama presenza; è uno dei più grandi segreti dellarte dellattore. Può consistere nei virtuosistici accessi di rabbia di un Martin Wuttke, nel pathos spento di un Bernhard Minetti, anche nella rabbiosa carnalità di un Heinrich George. Ma la presenza di Mühe risaltava senza alcuna dimostrazione di violenza. La sua superiorità aveva qualcosa di genetico».
Aveva frequentato lAccademia darte drammatica “Hans Otto” di Lipsia, aveva fatto il servizio militare come guardia di frontiera e quellesperienza lo aveva profondamente segnato nello spirito e anche nel fisico. Operato di ulcera allo stomaco, fu dichiarato inabile e a distanza di anni, come racconta nellintervista citata, bastò la minaccia di essere richiamato in servizio a gettarlo nella disperazione: come non vedere riaffiorare nel racconto di quella vicenda il personaggio del padre di Funny Games di Hanecke tutta la rabbia rattenuta dal senso di impotenza di fronte allaccanimento violento quanto insensato dei giovani in quel film? Il critico di «Die Zeit» ravvisa nella mancanza di libera espressione vigente nella ex-RDT la causa prima del processo introspettivo di Mühe, una caratteristica sufficiente a distinguerlo nel panorama degli attori tedesco-occidentali, che leccesso di libertà ha, a suo avviso, per lo più indotto alla semplificazione, talvolta alla grossolanità. Mühe in tedesco significa sforzo e più di uno sforzo dovette sicuramente farlo per adeguarsi alla realtà autoritaria della RDT, eppure nella citata intervista, egli rifiuta di atteggiarsi a vittima, non rinnega quel tempo, afferma anzi di aver avuto la fortuna di poter vivere grazie al suo lavoro nella parte esposta al sole e di aver goduto anche di qualche libertà come attore autorizzato a lavorare anche a Berlino Ovest: «Davvero io ho marciato con gli altri sul lato al sole… no, non marciato con gli altri, forse sono stato un compagno un po più critico, ma sempre sul lato esposto al sole».
Il critico della «Süddeutsche Zeitung» apriva il suo articolo domandandosi se fosse giusto che di un attore del livello di Mühe, con una carriera così ricca di successi teatrali, restasse limmagine del poliziotto della Stasi Gerd Wiesler, la giacca grigia chiusa sino al collo, le cuffie sulle orecchie. Sicuramente una testimonianza parziale della sua maestria di attore, sufficiente, tuttavia, a intuire in cosa consistesse il segreto della sua arte: per quanto può, spetta al cinema salvare il ricordo di un attore, perché il teatro, si sa, è scritto sullacqua.
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