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I Medici

di Sara Mamone
  Festival Pucciniano
Data di pubblicazione su web 18/07/2007  
In attesa degli allestimenti canonici (quest’anno Butterfly, Tosca, Bohème, Rondine) il festival pucciniano di Torre del lago ha offerto un intelligente omaggio a Ruggero Leoncavallo, contemporaneo del grande toscano, con la ripresa di un’opera dimenticata dell’autore dei Pagliacci: I Medici. Presentata nella sempre opportuna e rispettosa forma della mise en espace, con la solidissima presenza dell’orchestra e del coro del Maggio Musicale Fiorentino, l’opera è stata scelta e diretta con passione dal direttore artistico del festival, Alberto Veronesi, che prosegue con essa il suo progetto di valorizzazione  del ricchissimo patrimonio artistico e musicale definito minore o comunque non entrato nel repertorio comune.

L’esecuzione di un’opera dimenticata (e di questa viene promessa a breve una opportuna registrazione della Deutsche Grammophon) ha sempre un grande valore critico perché permette di mettere alla prova di un gusto nuovo ciò che all’epoca della sua composizione poteva non essere all’altezza del gusto del tempo e per la quale il tempo potrebbe invece aver lavorato a favore.

Non siamo convinti del tutto che l’opera scritta e musicata da Leoncavallo agli inizi della sua carriera, affidata all’interpretazione del grande Tamagno nel 1983 e presto bloccata da una disputa editoriale, sia effettivamente un grande capolavoro, ma certo la sua riproposizione ha tutta la dignità e l’utilità di una vera proposta culturale. Tanto più che la mancanza di un vero e proprio allestimento (i cantanti erano in proscenio, addobbati con costumi-indicatori e ingioiellati con suggestivi gioielli-scenici della collezione storica Svarowski) concentrava l’attenzione sull’accuratissima esecuzione, riducendo molto quello che fu considerato fin dal suo apparire il più grave difetto dell’opera e  cioè l’assoluta inconsistenza sul piano dell’azione drammatica. 
                                                      
In effetti il cedimento dell’autore alla vague wagneriana dell’autorialità totale e l’ambizione di creare un’opera nazionale che descrivesse lo “spirito italiano”, attraverso una trilogia rinascimentale (e in soprappiù col titolo unificatore di Crepusculum) non paiono trovare degna applicazione nell’incedere meccanico ed esclusivamente dialogico della vicenda. Non seguita dai progettati Savonarola e Cesare Borgia l’opera non ha infatti una gran trama, anche se gli avvenimenti che vuol comprendere sono veramente “storici” e cioè la congiura dei Pazzi, la morte di Giuliano de’ Medici e la presa del potere (effettiva anche se non istituzionalizzata) da parte di Lorenzo («Del trono a me spianato/ hanno il cammin./ Tu mi vendica o plebe!/ io regno alfin». Cade la tela.). 

Più che la semplicistica e presuntuosa ideologia conteranno allora i risvolti psicologici dell’azione: l’amore improvviso e irresistibile di Giuliano per la bella Simonetta, la sua malattia, il tormentato e colpevole tradimento dell’amica Fioretta, contraltare reale e fisico del sublimato amore  della morente fanciulla, l’autentico amore del compositore per le canzoni e gli stornelli della tradizione popolare toscana.  La mise en espace è in questi casi la soluzione giusta. Quando naturalmente gli esecutori siano di buon calibro e, obbligatoriamente, di buona dizione. Nell’edizione di cui riferiamo (privata della sua protagonista Daniela Dessì senza alcuna spiegazione, anche se ben rimpiazzata da Adriana Damato) gli interpreti assolvevano più che dignitosamente alla loro funzione, con una punta di eccellenza in Ko Seng-Hyoun nel ruolo di Lorenzo e un imbarazzante ingorgo lessicale in Badri Maisuradze, Giuliano: non siamo certo tra  gli estimatori del libretto “leoncavallino” ma vorremmo renderci comunque conto da soli che le sue parole sono da seppellire, senza la pietosa eutanasia dell’interprete.


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